Tinagli: «Italia apriti al mondo, altrimenti muori»
La ricercatrice-parlamentare: «Ok il Jobs Act, ma dobbiamo smettere di difenderci e basta»
Intervista di Francesco Cancellato
Irene Tinagli è il cervello in fuga per antonomasia. Laurea in Bocconi e poi una carriera accademica oltreoceano, come braccio destro del sociologo americano Richard Florida, che le è valsa il titolo di Young Global Leader dal World Economic Forum nel 2010. Irene Tinagli è anche un cervello «di ritorno», però. Perché ha scritto due libri che parlano dell’Italia e della sua scarsa attrattività – Talento da svendere, nel 2008 e Un futuro a colori, nel 2014 – e oggi è deputata a Roma, eletta con Scelta Civica, membro della commissione lavoro. Più che per provare a cambiare il destino di chi come lei ha tentato la strada altrove, per consentire ai cervelli stranieri di fare il percorso inverso.
Come comincia la tua storia di «cervello in fuga»?
Mi sono laureata in Bocconi e ho lavorato due o tre anni lì come ricercatrice. Tuttavia, mi ero resa conto che lì il percorso di crescita sarebbe stato molto lungo. E poi avevo voglia di fare un’esperienza diversa, di esplorare strade nuove. Per un anno intero ho fatto domande di borse di studio ovunque, perchè da sola non mi sarei potuta permettere di pagarmi un master o un dottorato negli Stati Uniti. Alla fine, ho vinto la Fulbright Scholarship e sono partita.
Cos’è la Fulbright Scolarship?
È una borsa di studio molto famosa negli Usa. È stata istituita nel 1948 dai Dipartimento di Stato americano, l’equivalente del nostro Ministero degli Esteri, per portare negli Stati Uniti studiosi da tutto il mondo. È molto meritocratica ed è una grande leva di mobilità sociale, perché permette ai giovani, indipendentemente dal reddito, di frequentare le migliori università degli Stati Uniti. Io ho scelto la Carnegie Mellon di Pittsburgh.
Ed è lì che hai incontrato Richard Florida…
Sì, ho iniziato subito a lavorare insieme a Florida, allora semisconosciuto, che già stava lavorando a “L’ascesa della classe creativa”, che di lì a qualche anno sarebbe diventato il centro del dibattito sugli ambienti competitivi in tutto il mondo.
Cosa ti ha affascinato delle sue ricerche?
È stato molto bello perché mi ha aiutato a capire le ragioni anche della mia migrazione, mi ha fatto osservaren una prospettiva nuova la mia stessa esperienza. Facevamo analisi di sviluppo locale e cercavamo di capire cosa rende una città più attrattiva ed innovativa, , argomento classico dell’economia urbana. Il bello è che lo facevamo in una prospettiva completamente nuova, mescolando la teoria economica con quella socio-psicologica.
Qual era l’elemento di novità delle vostre ricerche? Cos’era, secondo voi, a rendere un luogo più creativo e attrattivo di un altro?
Per noi era cruciale capire cosa spingesse una persona a muoversi e a scegliere un luogo in cui lavorare e vivere invece di un altro, e cosa, in quel luogo, la stimolasse ad essere più creativa e produttiva. Per esempio: come mai la stessa persona che vive a Pittsburgh si sente triste e poco attiva, mentre a New York è felice, iperdinamica e piena di idee?
La domanda te la faccio io: perché tanti giovani scappano dall’Italia e nessun giovane talento straniero decide di venire a studiare, lavorare, vivere da noi?
Ti faccio un esempio banale: nel mondo accademico Usa se vuoi cercare lavoro, ci sono le conferenze internazionali del tuo settore, ma ci sono anche periodi determinati in cui le università mettono annunci di posizioni libere, raccolgono i curriculum e poi nel giro di pochi mesi fanno colloqui. È tutto molto semplice e trasparente. In Italia tutto questo non esiste, è molto difficile sapere se e quando ci saranno i concorsi, quanto dureranno, se e quando ti chiameranno. Lo stesso per entrare nel mondo del lavoro al di fuori dell’accademia. Per uno straniero che non ha nessuno cui chiedere, è molto complesso. Io stessa quando avevo finito il master a Pittsburgh e prima di iniziare il dottorato, per curiosità avevo mandato una mail al Direttore di un’agenzia regionale per il lavoro e tutto quello che mi aveva risposto era un link ad un sito di call center. Mi chiedo ancora oggi se avessero guardato il curriculum o meno…
La burocrazia è il primo dei problemi, quindi?
La burocrazia è una gigantesca complicazione. Senza andare troppo lontani, la differenza, in termini di semplicità e digitalizzazione, tra un ufficio dell’agenzia delle entrate spagnolo e uno italiano è disarmante. Fosse solo questo, però, saremmo già messi bene.
Cosa c’è d’altro?
È una questione di approccio, a mio avviso. Ed è ciò che ci limita non solo nell’attrarre talenti, ma anche nel trattenerli qua. Può sembrare banale, ma una barriera gigantesca che andrebbe abbattuta, in Italia, è quella della lingua. Negli uffici pubblici non si parla una parola d’inglese, nei negozi pure, a volte nemmeno i siti internet sono tradotti. Per quanto ci sembri normale, è assurdo che gli stranieri siano esclusi dai concorsi per entrare nella Pubblica Amministrazione. Se è vero che vogliamo attrarre talenti stranieri, non sarebbe il caso di avere negli uffici pubblici persone che sappiano parlare con loro? Se non cominciamo ad aprire le nostre amministrazioni, come pensiamo di aprire il paese?
Mi pare che l’approccio dei governi al problema sia stato tutt’altro, però. Gli unici tentativi che ho visto, in questo senso, sono stati quelli di offrire incentivi fiscali a chi tornava a casa…
La leva economica e fiscale non è del tutto inutile, per riportare la gente a casa. Le agevolazioni fiscali per i ricercatori di Tremonti, sono state uno strumento utile per quelle università che già avevano una proiezione internazionale. Siccome in Italia si paga poco la ricerca, la leva fiscale le ha rese più competitive.
Mi pare sia poco più di un palliativo, o sbaglio?
Servirebbe anche oggi un ragionamento più ampio sulle leve ambientali della crescita. Molti ragionamenti che esulano dai temi strettamente economici – vita culturale, tolleranza, apertura – sono stati marginalizzati dal dibattito pur essendo centrali tanto quanto l’incentivo fiscale. Peraltro, l’Italia avrebbe parecchie carte da giocare, se mettesse a valore la qualità del vivere. Eppure, tutto questo è considerato superfluo, qualcosa di cui occuparsi quando tutto il resto va bene, laddove invece è la leva per cambiare modello di sviluppo, per ricominciare a crescere.
Spiegati meglio…
Pensa se dieci anni fa avessimo investito sulle filiere della cultura e dell’intrattenimento, sull’architettura, sul design. Sono settori che negli Stati Uniti, nello stesso periodo, hanno generato milioni di posti di lavoro. Forse avrebbero potuto attutire la grande crisi manifatturiera degli ultimi anni. Oggi invece non abbiamo altro che da rattoppare l’esistente.
Renzi parla spesso di visione, di futuro. Come giudichi il suo operato, fino a questo momento?
In questo momento vedo Renzi molto occupato da alcune importanti riforme strutturali – giustizia, lavoro, istituzioni – nodi che comunque il paese deve sciogliere. Molto sinceramente – e lo dico da persona che l’ha seguito parecchio, negli anni precedenti - mi sarei aspettata di più sulla valorizzazione dell’innovazione, sulle industrie emergenti, sui settori di frontiera. Nelle politiche economiche di crescita e di sviluppo per ora, sono un po’ delusa. Così come sui temi dell’apertura, della tolleranza, dei diritti civili e del progresso sociale. Tutte cose di cui ha parlato molto, ma, almeno per ora, fatto poco…
C’è chi dice che all’Italia serva una politica industriale…
In Italia c’è sempre questo desiderio di intervento statalista. E per politica industriale tipicamente si intende questo: dei burocrati statali che decidono dove e come si deve sviluppare un cluster imprenditoriale, a chi dare fondi e incentivi e chi siano i nuovi Mark Zuckerberg,. Una concezione che mi fa rabbrividire.
L’Italia è ancora in tempo per sfornare il nuovo Mark Zuckerberg?
Io ambirei a inventarmi qualcosa di nostro che abbia una sua specificità e distintività. In California per esempio è cresciuta tantissimo anche la zona vicino a Los Angeles, che di tecnologico all’inizio aveva poco, ma che col tempo ha saputo far incontrare spettacolo e nuove tecnologie, sviluppando i new media, l’industria dei videogames,dell’intrattenimento. E pian piano si è diversificata. Oggi c’è persino un’importante industria biotecnologica. Ogni regione può attivare un dinamismo fondato sulle sue specificità e poi lasciare che lo sviluppo sia trainato dalla spontaneità dello spirito imprenditoriale più variegato.
Quali sono le specificità dell’Italia?
L’Italia potrebbe far leva su tanti punti di forza: l’artigianalità che si unisce alle nuove tecnologie, il design, la moda, ma anche l’automazione, la robotica, la meccanica, o ancora il turismo, i beni culturali.
Piccola provocazione: non è che ne abbiamo troppi, di punti di forza? E, soprattutto, che nessuno di essi riesca a emergere per eccesso di frammentazione e campanilismo?
Frammentazione territoriale e provincialismo culturale sono due cose diverse. La varietà e la dispersione territoriale possono essere gestite e possono diventare dei punti di forza. Peraltro, se fino a qualche anno fa erano le metropoli i punti di attrazione della creatività e del talento, in questi ultimi anni si rileva un’inversione di tendenza. La gente esce dalle metropoli e si gode le città medio-piccole. Anche in passato, peraltro, le metropoli più attraenti erano quelle che riuscivano a ricostruire al proprio interno delle dinamiche da villaggio. Greenwich Village a New York, ad esempio: hai il panettiere sotto casa e poi il super-teatro o il super-museo a qualche isolato di distanza.
Il provincialismo, invece?
È più complicato da affrontare. Servirebbe una maggiore interazione e collaborazione tra piccola e grande città. Un coordinamento di iniziative e servizi. Ma implica una lungimiranza delle amministrazioni locali che vediamo molto poco. Ma sarebbe un metodo per aprire di più i piccoli contesti, “contaminare” i cittadini di provincia e migliorare il clima sociale.
Non mi pare in Italia stia accadendo, anzi…
È vero. Ognuno ha il suo teatrino, il suo piccolo polo universitario e il territorio si impoverisce invece che arricchirsi. In Italia, la provincia tende a chiudersi ed è paradossale: cerchiamo di battere l’università della provincia accanto e nessuna delle due è attrattivaVogliamo proteggerci dalle immigrazioni per non esporre i nostri giovani alla concorrenza straniera e poi i giovani vanno all’estero per contaminarsi, per parlare con giovani stranieri, per imparare nuove lingue. Oggi chiudersi e proteggersi non serve a nulla.
Il Jobs Act serve, invece?
Secondo me va nella giusta direzione, perché rende il mercato del lavoro meno rigido, più dinamico. Si fa un gran parlare dell’articolo 18, ma secondo me la questione è un’altra. Accorciare i tempi della ristrutturazione e della riorganizzazione di un’impresa fa aumentare le possibilità per i giovani. Prima un’azienda può essere messa in condizione di riconfigurarsi per meglio rispondere al mercato, prima può provare a ripartire, ad assumere, a cogliere le opportunità di mercato, a valorizzare i lavoratori sulla base della competenza e del merito, non solo dell’anzianità.
Esiste davvero, in Italia, una contrapposizione tra merito e anzianità?
Nel nostro mercato del lavoro, il problema è entrare. Da noi il picco dello stipendio è a cinquanta, sessanta anni, altrove è a quarant’anni, che è in effetti l’età in cui il lavoratore dà il massimo del suo contributo. Questo è il segnale che da noi merito e anzianità sono effettivamente contrapposte. Nel Jobs Act ci sono tante risposte ai problemi del mercato del lavoro italiano. Speriamo che il governo dedichi agli ammortizzatori sociali, alla semplificazione normativa, ai servizi per l’impiego, alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro la stessa attenzione che ha riservato ai contratti.
Temi che non accada?
Sono prudente. Il Jobs Act è una legge delega, non un decreto. Farlo approvare dal Parlamento, non basta per cantare vittoria. Ora servono decreti delegati fatti bene che migliorino davvero la competitività delle aziende. E poi serve continuità.
Cioè?
Le riforme vanno fatte funzionare. Noi abbiamo avuto tre governi in tre anni e ogni volta si è ricominciato da capo, disfando quel che era stato fatto in precedenza. Io mi auguro che su questa legge delega ci sia la determinazione per andare fino in fondo e continuità nell’implementazione. Non ci possiamo più permettere di non avere le idee chiare.
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