Perché il calo del Pil non è colpa dell’austerità
Il problema sono piuttosto riforme mal strutturate e l’attività preparatoria alla banking union
I dati del Pil dell’Unione Europea del secondo trimestre (UE28: +0,2% su trimestre e +1,2% sull’anno precedente; Eurozona: +0% su trimestre e + 0,7% su anno) sono senza dubbio deludenti, ma una loro analisi con gli occhiali della propaganda politica può apparire fuorviante e anche pericolosa, sia per la strategia di comunicazione del governo italiano in Europa sia per l’impostazione della prossima legge di Stabilità.
Partiamo dalla considerazione trilussiana che dietro ad un valore medio si nascondono performance brillanti (ad esempio, su trimestre anno precedente Spagna: +1,2%, Regno Unito: + 3,1%, Polonia: +3,2%) e performance deludenti (ad esempio, su trimestre anno precedente Italia: -0,3% e Francia: +0,1%). Prima di parlare di “ricette” europee che non funzionano, è quindi necessario perlomeno una specificazione nazionale: su 28 Paesi solo quattro hanno registrato una performance su anno precedente negativa (Italia, ma non Germania o Francia) e solo sei (tra cui Italia, Francia e Germania) una performance su trimestre precedente nulla o negativa. L’Italia e la Romania sono gli unici Paesi ad essere entrati tecnicamente in recessione in questo trimestre, mentre l’Estonia e la Finlandia sono invece uscite. Per la cronaca, peggio di noi su base annuale c’è solo Cipro con un -2,5%.
Guardando ai dati, non è possibile inserire la Germania nel gruppo dei Paesi in seria difficoltà. Se è vero che il Pil del secondo trimestre rispetto al precedente ha il segno negativo (-0,2%), la media dei primi due trimestri dell’anno è esattamente uguale a quella degli Usa (dove la battuta d’arresto si era registrata in anticipo di un trimestre). Se l’origine del calo del Pil tedesco è da attribuire alla crisi ucraina, è probabile che la debolezza si estenderà anche sul terzo trimestre. Ma, a meno di non immaginare scenari catastrofici per le relazioni internazionali, è un elemento esterno al sistema produttivo tedesco e destinato ad essere riassorbito una volta che il rischio geopolitico si “normalizza”.
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Se la tesi che l’eurozona (per non parlare della Ue) sia nella stessa situazione dell’Italia non sembra essere confermata dai dati, rimane tuttavia vero che l’Europa sta uscendo dalla recessione con estrema lentezza. Ed è anche vero che le previsioni avanzate dai principali istituti di ricerca per il 2014 si stanno rivelando sbagliate per eccesso di ottimismo. Quali sono le ragioni di questo imprevisto rallentamento ?
L’austerità fiscale è l’imputato numero uno, almeno sui media italiani. Però, se guardiamo proprio all’Italia, il governo Renzi - e prima di lui il governo Letta - ha fatto di tutto per spingere la domanda con la leva fiscale. Il governo Letta ha sospeso il pagamento dell’Imu prima casa; Renzi ha regalato gli 80 euro. Inoltre, entrambi i governi hanno usufruito della grazia concessa dalla Commissione di non considerare deficit il pagamento dei debiti pregressi della Pa. Evidentemente, il taglio delle tasse se non è inserito in un disegno organico di riforma del sistema fiscale e di riduzione coerente della spesa pubblica non viene percepito come credibile (e a ragione!) dai consumatori e dagli imprenditori. Non è un caso che nei paesi europei dove le riforme sono state fatte in maniera coerente la ripresa inizi a vedersi.
Dopo l’austerity fiscale, tra le cause del rallentamento si menzionano i rischi geopolitici (crisi Ucraina, come già detto) e il ruolo troppo passivo della Bce di fronte al rischio deflazione e all’apprezzamento dell’euro. Più raramente, si parla della banking union e della relativa attività preparatoria. Non si vuole qui mettere in dubbio il vantaggio che nel lungo termine può derivare all’Europa da una effettiva banking union. Tuttavia, nel breve termine, il passaggio di testimone dalle banche centrali nazionali alla Bce ha comportato una lunga fase preparatoria dove tra stress test e asset quality review il sistema bancario europeo è stato costretto ad accelerare la ripulitura dei bilanci (si veda la perdita monstre di Unicredit nel 2013) e varare imponenti aumen ti di capitale. Adesso alcune banche europee hanno livelli di equity molto superiori a quelli ritenuti sufficienti. Questo è un bene per la “stabilità” del sistema finanziario. Ma tra “stabilità” e “crescita” es iste un trade-off, particolarmente accentuato nei sistemi più “banco-centrici”.
Visto che l’Italia, con il suo tessuto di imprese medio-piccole, dipende dal canale bancario molto più di altre economie e visto che si posiziona a livello di export su segmenti più price-sensitive di quelli tedeschi, non stupisce che subisca maggiormente l’impatto implicitamente recessivo dell’ apprezzamento dell’euro e della diminuzione della leva creditizia.
Con un primo semestre così disastroso, per il governo italiano sarà impossibile confermare per il 2014 un tasso di crescita del Pil allo 0,8% e circola già sui giornali l’ipotesi di una revisione a settembre a +0,3% (che rimane una stima ottimistica rispetto ad esempio alla previsione di Moody’s di un -0,1%). L’impatto sui conti pubblici di una differenza di mezzo punto nel tasso di crescita del Pil potrebbe essere coperta senza ricorrere a nuovi prelievi, solo con la promessa di un contenimento della spesa pubblica, se l’obiettivo “vero” del governo è quello di non sforare il 3%, come spesse volte dichiarato dal Premier, e non quello di conseguire il 2,6% nel 2014 e l’1,8% nel 2015, come invece ufficialmente concordato con Bruxelles.
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