martedì 25 marzo 2014

Un articolo da leggere a prescindere dalle convinzioni che ognuno ha.

La pacchia di fare il manager pubblico in Italia

Ma più che gli stipendi importante monitorare l'operato dei manager col meccanismo di accountability
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Tra poche settimane il neo presidente del Consiglio Matteo Renzi si troverà ad affrontare la delicata questione delle nomine dei dirigenti in oltre 400 tra aziende e agenzie controllate da numerosi ministeri: Economia e finanze in primis ma anche Difesa, Trasporti e Politiche Agricole.
Queste scelte sono importanti almeno quanto il Jobs Act o la legge elettorale, e non solo come ennesimo segnale di cambiamento ma anche per la rilevanza di tali aziende nella nostra vita quotidiana. A queste imprese è affidato il compito di gestire ambiti strategici per la vita del paese quali i trasporti (Trenitalia, Anas e Enav), l’energia (Eni e Enel), senza dimenticare le numerose Agenzie o Enti di vigilanza quali Consob e Consip.
La tensione per l’imminente round di nomine si avverte: nei giorni scorsi il presidente Renzi e l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato Mauro Moretti si sono scontrati sul tema della remunerazione dei manager pubblici. Alla provocatoria proposta di Renzi di fissare un limite al loro compenso (da equiparare alla remunerazione del capo dello Stato), Moretti ha altrettanto provocatoriamente risposto che si sarebbe dimesso dall’incarico.

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Nonostante l’indubbia importanza del tema il rischio è quello di scivolare in una sterile battaglia ideologica, distogliendo lo sguardo da problemi più profondi. La domanda da porsi è: come attrarre, remunerare e monitorare l’operato dei manager pubblici? Il principio alla base di tale processo è quello dell’accountability, per usare un’espressione diAnthony Giddens, ideologo della “Terza Via” di Blair, a cui il presidente del Consiglio dice di ispirarsi.
Se il concetto di accountability è semplice in teoria, la sua applicazione richiede meccanismi e un sistema di pesi e contrappesi (checks and balances) non semplici da identificare e applicare. A nostro avviso nessun intervento diretto sui meccanismi di nomina e remunerazione dei manager pubblici sarà efficace senza affrontare prima il problema dell’identità delle aziende pubbliche. I due aspetti sono inestricabilmente legati: cosa fanno le aziende pubbliche e a chi rispondono del loro operato (al di la della Corte dei Conti)? E poi: quanto potere decisionale hanno i manager? E infine: come attrarli, remunerarli e liberarsene se necessario?
Il primo nodo da sciogliere è capire cosa fanno le aziende pubbliche e cosa ci aspettiamo da loro. A differenza delle aziende private, le imprese a controllo pubblico operano in settori o ambiti privi di concorrenza (si pensi alla gestione della rete stradale, o fino a poco tempo fa, delle Ferrovie). Operano spesso in regime di monopolio e in molti casi misurarne l’output o la performance è impossibile: quand’è che una Autorità di Vigilanza come la Consob o l’Ivass ha centrato il proprio obiettivo?
L’assenza di un mercato concorrenziale e l’assoluta necessità per lo Stato di offrire certi servizi hanno consentito una totale violazione dei principi di efficienza nella loro gestione. La possibilità di riversare le inefficienze sullo Stato (e quindi sui contribuenti) ha consentito il proliferarsi di meccanismi distorti che si traducevano in assunzioni clientelari, contratti di fornitura e sub-appalti a condizioni fuori mercato o anche al mantenimento di livelli e condizioni di occupazione che altrimenti sarebbero stati inconcepibili. Il caso Alitalia è senza dubbio l’esempio più evidente.
(Afp - credito Vincenzo Pinto)

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A nulla è servita la finta trasformazione giuridica di queste aziende da Enti pubblici a soggetti di diritto privato: la longa manus dello Stato ha sempre agito indisturbata. Il primo aspetto da chiarire è dunque chi decide gli obiettivi di tali aziende o Enti. Allo Stato azionista (principal) spetta il compito di definire senza ambiguità quali sono le risorse a disposizione e quali gli obiettivi fissati in capo al manager chiamato a gestire l’azienda (agent). L’attuale meccanismo per cui l’esecutivo di turno – attraverso i Ministeri – nomina i dirigenti, garantisce una trasparenza solo formale. Di fatto, l’ingerenza dei partiti politici consente loro di influenzare le scelte senza esserne direttamente responsabili agli occhi dei cittadini: di fatto tirano il sasso e nascondono la mano.
Questo primo livello di accountability – nei confronti dei contribuenti – sarebbe garantito se prima di ogni nuova nomina aziendale si rendessero pubbliche: (i) le condizioni contrattuali (obiettivi condivisi e risorse disponibili), e (ii) i nomi dei responsabili della scelta del nuovo amministratore delegato.
La situazione diventa ancora più complessa in aziende a controllo pubblico che sono anche quotate in Borsa, come nel caso di Eni o Enel. Qui la logica ‘pubblica’ si interseca con gli obiettivi di altri investitori che hanno interessi non necessariamente convergenti con quelli strategici del Ministero.
Il secondo aspetto su cui vale la pena fare delle considerazioni riguarda il lato dell’offerta di manager pubblici. L’individuazione e la remunerazione dei manager non può prescindere dalla difficoltà del rischio connesso del ruolo che i manager designati andranno a ricoprire. Gestire aziende grandi e estremamente complesse richiede capacità manageriali che vanno remunerate: se la paga non fosse adeguata ci sarebbe una selezione avversa che allontanerebbe i manager più talentuosi poco propensi ad accettare una posizione rischiosa a cui non corrisponde una remunerazione adeguata.
Purtroppo la realtà ci offre un quadro molto diverso in cui la figura del manager pubblico è diventata quasi una professione. In sostanza, una volta ottenuti incarichi di rilievo in un’azienda pubblica, anche in caso di scarsa performance, il manager viene ‘riciclato’ (dopo poco tempo) altrove. Questa prassi rende la professione di manager pubblico particolarmente attrattiva poiché di fatto elimina il rischio di uscire fuori dall’orbita delle nomine, rendendolo praticamente un mestiere sicuro.
Foto da Flickr di Federico Mosconi

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Altro aspetto particolarmente problematico è il cumulo delle nomine. Il recente esempio del plenipotenziario presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, il quale, oltre a gestire una delle aziende più complesse del paese, aveva altri ventiquattro incarichi, sottolinea quanto sia pervasiva e ai limiti dell’indecenza questa prassi. Gli intrecci nelle aziende pubbliche sono ancora più pericolosi che nelle imprese private perché le connivenze e inefficienze che generano hanno un costo sociale enorme, anche in termini simbolici.
Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps

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LinkTank ha analizzato i dati sulla remunerazione degli amministratori delegati delle aziende a controllo pubblico quotate alla Borsa di Milano nel 2005-2009, e li ha confrontati con quelli delle aziende a controllo familiare e misto[1].
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Gli Ad delle aziende pubbliche hanno percepito in media un compenso superiore del 40% rispetto agli omologhi Ceo familiari; la differenza è quasi interamente dovuta alla presenza di bonus cospicui. In sostanza, è evidente che la remunerazione dei manager non sia la ragione della scarsa produttività di molte aziende pubbliche, anzi, se si considera il rischio (limitato) di essere estromessi dal sistema delle aziende pubbliche, i lauti compensi rendono la professione molto attrattiva.

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Le scelte future del presidente Renzi e del suo team dovrebbero in prima battuta concentrarsi su una riforma profonda del metodo, anziché su pericolosi aspetti parziali – quali la remunerazione – che rischiano di sottovalutare la complessità della questione. A parere di chi scrive è essenziale creare un meccanismo di accountability doppia: da una parte dei soggetti responsabili delle nomine dei dirigenti delle aziende pubbliche nei confronti dei contribuenti; dall’altra, dei manager nominati nei confronti del Ministero e del partito politico responsabile della nomina.



[1] Si ringraziano il Prof. Alessandro Zattoni (Universita’ Bocconi) per la disponibilità a condividere i dati e il dott. Alessandro Cirillo (Università di Napoli Federico II) per il supporto nell’analisi dei dati

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