La portata della sfida per il cambiamento lanciata da Matteo Renzi è molto ampia, ma il terreno di gioco si estende ora in uno spazio estremamente definito. È nel quadrilatero sindacati-Confindustria-Banca d’Italia-Tesoro che il programma del presidente del Consiglio si sta calando. E il premier, che fin dall’inizio ha sempre ostentato la massima libertà di movimento, sa che anche dalla dialettica di questi quattro poteri dipende il successo della propria proposta di governo.
L’impatto della scossa portata avanti dall'ex sindaco di Firenze è tangibile. A fare da sismografo sono le prese di posizioni dei vertici delle massime istituzioni economiche del Paese dell’ultima settimana, il segnale che l’insistenza sul cambiamento con cui il segretario Pd sta puntando le costringe anche a ridefinire i propri ruoli. Un nuovo quadro fatto di alleanze “a geometrie variabili” che vede inediti avvicinamenti anche tra istituzioni tradizionalmente distanti.
Il feeling ritrovato con il Tesoro. Un primo scossone è giunto con il “giuramento” del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan al presidente del Consiglio, che paragonandosi a Lothar - rispondendo a chi etichettava Renzi come Mandrake -, ha dato al presidente del consiglio un messaggio di fedeltà inequivocabile. Replicato il giorno dopo alla Luiss, quando il ministro insistendo sul tema della crescita, caro al premier, ha preso le distanze dai suoi predecessori a via XX settembre inserendosi sulla scia del capo del governo. La fine, almeno temporanea, della temuta guerra tra Tesoro e Presidente del Consiglio. Segnali di distensione importantissimi alla vigilia di una scadenza fondamentale, quella della presentazione del Documento di Economia e Finanza, che per la prima volta costringerà Renzi a tradurre in numeri, una parte delle tante parole, e promesse, diffuse in questo primo mese di governo.
L’inedito dinamismo di Bankitalia. Anche le prese di posizione del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, istituzione da sempre prudente nei propri interventi, si inseriscono in questo quadro di “scompaginamento” dei ruoli messo in atto dal premier. Nella lectio magistralis di mercoledì al collegio Borromeo di Pavia, il numero uno di Via Nazionale ha fortemente insistito sul tema della crescita, spiegando poi che “la realizzazione di riforme strutturali" per "un recupero di competitività" è un "passaggio essenziale per il rilancio del Paese". Un sottile endorsement al premier accompagnato anche da una prima, vigorosa, rassicurazione su uno degli spettri che progressivamente sembra incombersi sull’azione del governo dei prossimi mesi: il fiscal compact. Nessuna manovra da 50 miliardi all’anno, ha rassicurato Visco, spiegando che per rispettare la regola del debito – riduzione di un ventesimo della quota eccedente il 60% - "non è necessario ridurre il valore nominale del debito. In condizioni di crescita "normale", vicina al 3% nominale, sarebbe infatti sufficiente mantenere il pareggio strutturale del bilancio". In sintesi: più crescita per far calare il rapporto debito/pil, la stessa ricetta sventolata dal premier in tutte le sedi europee.
Il matrimonio “della palude” tra Confindustria e sindacati. Ma il fronte più caldo, è senz’altro quello che riguarda imprese e sindacati. Ribaltando uno schema tradizionalmente ostile a qualsiasi governo, l’alleanza tra imprese e lavoratori, Renzi fin dall’inizio ha fatto di tutto per costruire delle nozze artificiose tra le due istituzioni. Il matrimonio “della palude”, per usare l’immagine brutale utilizzata dal premier, incoraggiato per far risultare con più forza la propria spinta di cambiamento in aperto contrasto con poteri conservativi e consociativi, quali sono – secondo il presidente del Consiglio – Confindustria e sindacati.
Precarietà, burocrazia, dl lavoro: tutte le “strane” alleanze. Nell’inedito quadro di geometrie variabili citato sopra, ci ha pensato proprio il governatore di Bankitalia ad aiutare i due a rompere l’unione. All’indomani di un attacco molto duro riservato loro da Visco (“La loro rigidità frena lo sviluppo del Paese”, aveva detto venerdì), il capo di Via Nazionale ha teso la mano al sindacato, che si è rivelato così meno solo di quanto pensi Renzi, usando parole molto nette contro la precarietà e l’utilizzo dei contratti a termine e riservando invece critiche severe agli imprenditori. "Attraverso una maggiore patrimonializzazione, anche con risorse proprie” – ha detto “potranno dimostrare direttamente la fiducia nelle prospettive delle loro imprese". Un modo, garbato, per invitare le imprese a non scaricare le responsabilità sempre sul difficile accesso al credito bancario ma a mettere anche mani al proprio portafoglio.
Accuse, compensate da un feeling trovato nelle scorse settimane nell’offensiva lanciata dal premier contro la burocrazia, tema sempre più ricorrente dell’agenda di governo del presidente del consiglio. Un fronte che trova inevitabilmente l’opposizione del sindacato, che deve fronteggiare un’altra intesa “temporanea”, quella di Tesoro e imprese sul decreto lavoro. “Occorre che il parlamento confermi la scelta del governo”, ha detto Squinzi rivelando sostanzialmente che il testo licenziato dal governo è , parola per parola, quello che gli imprenditori avrebbero scritto di proprio pugno. Un assist involontario anche a chi, all’interno del partito del premier, ha già trovato nel provvedimento sull’occupazione il punto ideale per coagulare la minoranza. Rischiando di creare a Renzi non pochi grattacapi.