3/04/2014
L’arresto degli indipendentisti
Veneto, perché non bisogna ridere del golpe in trattore
Armi e minacce separatiste non sono mai una farsa, finché i tentativi non falliscono. Lo sono dopo
Dobbiamo preoccuparci o no dei vecchi o nuovi serenissimi che volevano trasformare sei trattori agricoli in carriarmato dotati di mitraglietta e proclamare l’indipendenza del Veneto sfilando in armi sulla pubblica piazza?
Se si dovesse giudicare dal loro equipaggiamento da guerra dei bottoni, dai loro proclami, dai due milioni e mezzo di voti che dicevano di aver raccolto su internet nel recente referendum per l’indipendenza (e che invece sono risultati prevalentemente taroccati), questi indipendentisti non sono un pericolo. Non si dovrebbe temere, nemmeno nel tempo della crisi, che il profondo Nord di questo Paese possa cedere alle sirene del secessionismo, alla demagogia della piccola patria che da sempre cova sotto la cenere in una regione che ha nella sua storia una arcaica memoria repubblicana (quella dei doge) ma una recente tradizione imperiale (quella asburgica). E nemmeno si dovrebbe immaginare che il popolo delle partite Iva e dei piccoli imprenditori possa cedere alla fascinazione della miscela improbabile di vecchie facce e nuove storie che accomuna i ventiquattro fermati di ieri.
Sembra di essere in uno dei più bei film della commedia all’italiana di Mario Monicelli, “Vogliamo i colonnelli!” (1973), quello che raccontava in forma di parodia il tentativo di golpe con cui inneggiando alla dittatura della giunta militare che all’epoca si era instaurata in Grecia, si auspicava l’instaurazione di una dittatura fascista in Italia. Il protagonista reale di quella trama, il principe Iunio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas avrebbe, per lunghi anni, gridato dalla Spagna la sua innocenza, dicendo che si trattava di un disegno poco più che simbolico. Eppure i magistrati trovarono la bozza di un surreale discorso televisivo che il principe nero si era già scritto, e che era pronto ad essere pronunciato subito dopo l’occupazione della sede della Rai, pianificata tra i primi obiettivi dei cospiratori, nella notte dell’Immacolata del 1970. Il discorso - tanto per farsi un’idea - cominciava con un saluto alle forze armate, si scagliava contro la democrazia e annunciava la sospensione dei diritti costituzionali.
Nel complotto - invece - erano stati coinvolti reparti della guardia forestale che effettivamente si misero in marcia per Roma, e fedelissimi del principe Borghese, insieme ad alcuni militanti di un movimento di estrema destra come Avanguardia Nazionale si introdussero effettivamente dentro la sede del ministero dell’Interno, riuscendo a prendere possesso dell’armeria, e trafugando una mitraglietta che sarebbe dovuta restare come prova della loro intrusione.
Tutto questo per dire che la farsa e il dramma, in Italia (come in Europa), confinano sempre, e consentono sconfinamenti. Non più di tre anni fa, se un russofilo avesse parlato di indipendenza dall’Ucraina e annessione alla Russia sarebbe stato preso per matto, mentre negli anni ottanta, nella Jugoslavia di Tito, buona parte dei futuri leader nazionalisti che negli anni novanta avrebbero animato una guerra civile erano in manicomio o in carcere. Non sappiamo cosa avessero in mente i nuovi serenissimi, e nemmeno che calcoli avessero fatto: a dire il vero importa relativamente. Le armi e le minacce separatiste non sono mai una farsa, finché i tentativi non falliscono: lo diventano solo dopo la sconfitta. Ecco perché del golpe in trattore si può ridere dopo gli arresti, non prima.
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