sabato 3 gennaio 2015

Riceviamo e pubblichiamo.


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Il primo decreto attuativo del Jobs Act è l’inizio di una vera riforma del lavoro. Quello che ancora manca è la lotta contro la precarietà. E sarebbe bene disegnare le regole del mercato del lavoro in condizioni normali, senza i benefici fiscali. Troppa confusione sui dipendenti pubblici. 
IL PRIMO DECRETO ATTUATIVO
La vigilia di Natale ha regalato agli italiani il decreto attuativo del Jobs Act. È un pezzo di vera riforma del lavoro, anche se certamente incompleta e con tratti di grande confusione, come testimonia il dibattito post natalizio sulla sua applicabilità al pubblico impiego.
Tra un mese, il licenziamento per motivi economici per i nuovi assunti non prevederà più la reintegra sul posto di lavoro, anche in assenza di giusta causa. L’articolo 18 è sostituito da una compensazione monetaria che crescerà con l’anzianità di servizio. Rimarrà invece la reintegra per i licenziamenti disciplinari, ma probabilmente sarà molto difficile per il lavoratore riuscire a ottenerla.
La riforma è decisamente incompleta. Mancano ancora gli interventi sulla precarietà. Senza toccare le regole dei co.co.pro e del contratto a tempo determinato la precarietà potrebbe anche aumentare. Un paradosso. Vediamo nel dettaglio le novità e criticità.
LE TUTELE CRESCENTI E I LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Dal febbraio 2015, le nuove assunzioni a tempo indeterminato saranno più flessibili. L’articolo 18 è quasi in pensione. Ha ragione Matteo Renzi quando dice che, con la riforma, “aumenteranno le assunzioni a tempo indeterminato”. Ha anche ragione Susanna Camusso quando sostiene che, con la riforma, “aumenteranno i licenziamenti”. Come è possibile abbiano ragione entrambi?
Quando si introduce un nuovo contatto a tempo indeterminato che riduce i costi dei licenziamenti, le imprese diventano davvero – come afferma Renzi – più propense a investire a lungo periodo nel lavoratore. Saranno più propense ad assumere perché sanno che, se le cose dovessero andare male, sarà più facile licenziare, come dice Susanna Camusso.
Il lavoratore ingiustamente licenziato per motivi economici, quelli legati all’andamento della domanda, alle condizioni di mercato e ai cambiamenti tecnologici e organizzativi, riceverà un indennizzo che sarà pari a un minimo di quattro mesi e inferiore a un massimo di ventiquattro e crescerà di due mesi per ogni anno di anzianità di servizio. L’impresa potrà offrire al lavoratore una conciliazione espressa con un pagamento immediato, in modo da evitare l’attesa della sentenza del giudice (la cosiddetta “rupture conventionnelle”).
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Il nuovo contratto è coerente con il contratto a tutele crescenti che con Tito Boeri abbiamo a lungo proposto su questo sito. È un grande passo avanti per portare l’Italia verso un mercato del lavoro normale.
Il Governo ha esteso la disciplina anche ai licenziamenti collettivi senza giusta causa: sono sempre per motivi economici e riguardano imprese che riducono la forza lavoro di almeno cinque lavoratori. Esistono già oggi e richiedono, per essere ammissibili, una procedura dettagliata, incluso un pre-accordo sindacale. Avere esteso la riforma anche a questi licenziamenti significa che le imprese potranno ridurre l’organico anche senza accordo sindacale. Dovranno però risarcire i lavoratori. È davvero un grosso cambiamento.
I LICENZIAMENTI DISCIPLINARI
La reintegra prevista dall’articolo 18 dei lavoratori rimarrà per i licenziamenti disciplinari senza giusta causa, ma richiederà che il giudice accerti che il fatto contestato al lavoratore non sussista. L’onere della prova davanti al giudice sarà però a carico del lavoratore. Le imprese dovranno stare molto attente ai dettagli di ciò che contesteranno al lavoratore. Quest’ultimo, a sua volta, avrà incentivo a dire al giudice che il licenziamento economico (che non prevede più la reintegra) sta mascherando in realtà un provvedimento disciplinare infondato. Il residuo di incertezza della nuova disciplina è in questa sottile differenza. Tutto dipenderà da come i giudici interpreteranno le nuove norme. Per i licenziamenti discriminatori, invece, ovviamente nulla è cambiato e si applicherà totalmente il vecchio articolo 18.
E LA LOTTA ALLA PRECARIETÀ?
La vera assente dal decreto di Natale è la lotta alla precarietà. Il presidente del Consiglio aveva detto più volte che il numero di contratti sarebbe stato ridotto. Rimangono invece tutti in essere, inclusi quelli a progetto, che nel settore privato rappresentano la vera forma di lavoro parasubordinato. Il contratto a tempo determinato, che oggi prevede fino a cinque rinnovi in tre anni senza restrizioni, non è stato toccato. Il vero rischio è che i giovani che entreranno nel mercato del lavoro affronteranno un cursus honorum infernale: un anno a progetto, tre anni a termine, seguiti da un periodo di prova di tre o sei mesi in cui non vi è alcuna tutela.
Dopo quattro anni e mezzo, accederanno a un contratto le cui protezioni crescono nel tempo. Un cursus honorum di questo tipo è troppo lungo e troppo precario.
Su questo sito avevamo da poco suggerito al Governo di rendere i contratti a progetto legittimi soltanto per un salario sufficientemente alto. E al tempo stesso di ridurre la durata massima del contratto a termine a due anni con tre rinnovi. Il Governo pareva intenzionato a seguire questa strada, ma sembra che all’ultimo abbia fatto marcia indietro. Altri decreti seguiranno quello natalizio, ma per ora contro la precarietà si è fatto troppo poco.
Il Governo è convinto che il nuovo contratto sarà stimolato dal beneficio fiscale previsto dalla legge di stabilità. Il beneficio è generoso (fino a 8mila per nuovo assunto), ma per ora dura solo un anno. In generale, è bene pensare e disegnare le regole del mercato del lavoro in condizioni normali e quindi senza i benefici fiscali, che difficilmente potranno essere rinnovati indefinitamente.
LA CONFUSIONE DEL PUBLICO IMPIEGO
La vera confusione è quella legata alla pubblica amministrazione. In Consiglio dei ministri era entrato un testo che applicava la nuova normativa al pubblico impiego e ne è uscito un testo che la esclude. Il presidente del Consiglio ha posto fine ai balletti delle dichiarazioni che ne sono seguite assumendosi personalmente la responsabilità della cancellazione e rimandando la questione del pubblico impiego a febbraio-marzo nel provvedimento che sta preparando il ministro Madia. È una situazione che riflette molto lo stile di questo Governo, con tutte le decisioni che vengono prese all’ultimo, sia quando si tratta di una nomina importante, che del destino di milioni di lavoratori pubblici.

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