martedì 30 dicembre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.

Province e Camere di Commercio, le incognite del 2015

Renzi pensa ai “fannulloni” della pubblica amministrazione, ma su Camere e Province è ancora caos

Getty Images/Tiziana Fabbri/Stringer

   
Nella conferenza stampa di fine anno il presidente del Consiglio Matteo Renzi lo ha detto: «Il pubblico impiego non deve stare nel Jobs Act. Ho tolto io gli statali dal testo». Per annunciare poi, un po’ alla Brunetta, una stretta nel 2015 all’interno del ddl Madia: anche «nel pubblico dobbiamo far passare la logica che chi non lavora, chi non timbra il cartellino va licenziato». Eppure, oltre i cartellini, ci sono due questioni avviate e non risolte dal governo nel 2014, che si ripresenteranno puntuali nelle prime ore del 2015, e che riguardano proprio la pubblica amministrazione: Province e Camere di commercio. Cosa succederà? Al momento, al di là dei tagli, è tutto molto vago. Sia per quanto riguarda le funzioni dei due enti, sia per quanto riguarda il destino di migliaia di lavoratori. Oltre 56mila per le Province, più di 7mila per le Camere.
Partiamo dalle province. Ad aprile 2014 il disegno di legge Delrio (prima Letta-Delrio) è diventato legge. Le province non sono state abolite, per farlo servirebbe una riforma costituzionale, ma svuotate dei loro poteri a partire dal 2015. Le competenze provinciali avrebbero dovuto essere trasferite alle Regioni, ai Comuni e alle città metropolitane (che nasceranno a partire dal 2015), tranne che per l’edilizia scolastica, la pianificazione dei trasporti e la tutela dell’ambiente. E i dipendenti provinciali, circa 56mila, avrebbero dovuto essere spostati anche loro insieme alle funzioni: alcuni in Regione, altri in Comune, altri ancora sarebbero rimasti nelle stesse Province. Ma è arrivata la legge di stabilità con i tagli e non tutto sta andando così liscio. Prima delle vacanze di Natale abbiamo visto i dipendenti delle province occupare le strutture, da Nord a Sud. E il 16 dicembre le tre sigle sindacali, questa volta unite, hanno manifestato mentre al Senato proseguiva la discussione sulla legge di stabilità.
Alla fine il governo ha messo una toppa e ha stabilito la proroga dei contratti dei lavoratori precari delle province, circa 2.500. Ma sul riordino delle funzioni è ancora «buio». «Avevamo accettato con Delrio di mettere mano alle autonomie locali», dice Giovanni Faverin, segretario generale della Funzione Pubblica Cisl, «ma il cronoprogramma di riorganizzazione di chi fa le funzioni e dove debba essere destinato il personale è stato stravolto. Il governo ha tagliato fondi a Province, Comuni e Regioni, che ora non sono pronti a riorganizzare e a farsi carico di nuove funzioni». E non si parla di funzioni qualunque, ma di temi cari al governo Renzi, come l’edilizia scolastica e il mercato del lavoro. Un esempio? «Il governo ha creato questa Agenzia nazionale del lavoro», dice Faverin. «Vuol dire che i dipendenti dei centri per l’impiego diventeranno di nuovo statali? Non sono queste mosse che permetteranno ai disoccupati di trovare lavoro. La differenza è che la Germania stanzia 1.800 euro per ogni lavoratore in cerca di lavoro, l’Italia 50». E anche i Comuni si chiedono cosa dovranno fare. Da Pisa, ad esempio, si domandano: «Di chi saranno a carico i servizi sul turismo che fino a oggi erano svolti dalle province? Nell’attesa che si fa? L’attuale bilancio della provincia di Pisa non permette spese per il turismo. Ci sono giusto i soldi per pagare il personale».
Lo stesso Enrico Letta, che con Delrio aveva sottoscritto il disegno di legge di riforma delle province prima di essere spodestato da Palazzo Chigi, ha detto: «La riforma era necessaria, ma ora bisogna aggiustare qualcosa perché così com’è non va. Occorre intervenire per garantire le funzioni importanti dell’ente a beneficio dei cittadini, ma anche per assicurare un futuro ai lavoratori e alle loro famiglie. È quindi necessario aggiustare quello che non va per portare a compimento il processo di riforma». Le Regioni ora si dicono pronte a ricorrere alla Corte Costituzionale, che già aveva bocciato il riordino delle province del governo Monti. Intanto si preparano a insediarsi dal 2015 i consigli delle nuove città metropolitane, che costeranno – si è calcolato – 4 miliardi di euro.

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Ma ci saranno anche le Camere di Commercio ad aspettare al varco il governo Renzi, con i loro 7mila e 500 lavoratori. Già da presidente della provincia di Firenze Renzi criticava quella della sua città. Arrivato al governo ha subito dichiarato guerra a questi enti, che sulle casse dello Stato in realtà non pesano, vivendo di vita propria grazie all’obolo pagato dalle imprese, il diritto annuale (dagli 80 euro per quelle piccole ai 40mila per le più grandi). Renzi prima ha annunciato di volerle abolire, poi ha detto di voler eliminare l’obbligatorietà dell’iscrizione al registro imprese, poi di volerla appaltare a qualcun altro.  
Il motivo sarebbe quello di alleggerire gli oneri a carico delle imprese. «Ma senza che le imprese glielo chiedessero!», sottolinea Faverin. «Sono le stesse aziende che chiedono di poter avere il registro imprese. In un momento di difficoltà e in un Paese fatto di micromimprese serve uno strumento in cui si possa fare un’indagine sul commercio». Certo, ci sono le partecipate delle Camere «che i soldi che avevano li hanno usati per girare il mondo, ma ci sono molte altre che contribuiscono a mantenere musei e fondazioni culturali fondamentali per il turismo dei territori». 
Intanto, il diritto annuale, principale fonte di finanziamento delle Camere di commercio, in base a quanto stabilito da una circolare del ministero dello Sviluppo economico già dal 1 gennaio 2015 verrà ridotto del 35%, fino ad arrivare al 50% a decorrere dal 2017. Che vorrà dire: meno soldi nelle casse delle Camere di commercio di tutta Italia. E nella legge di stabilità il governo era pronto ad assestare un altro colpo, togliendo il registro imprese alle Camere per darlo al ministero dello Sviluppo economico (che voleva dire dare soldi al ministero), ma poi ha ceduto. 
Le Camere, a luglio 2014, hanno anche deciso di autoriformarsi riducendo il numero degli enti, dalle attuali 105 a non più di 50-60, creando realtà locali con un bacino di almeno 80mila imprese. Ma ancora non tutte le regioni hanno stabilito quale Camera vince sull’altra e soprattutto come verranno redistribuiti i lavoratori. Qualcuno addirittura ipotizza che nel grande gioco delle tre carte del governo alle Camere possa addirittura andare la funzione dei centri per l’impiego, finora a carico delle province. 
«Il governo si sta mostrando capace a rottamare, ma incapace a riorganizzare», commenta Faverin. «Serve una radiografia corretta della pa: capire cosa va incentivato e cosa va chiuso. Il problema della pubblica amministrazione italiana non è stanare i fannulloni, come ha detto Renzi. Se i dirigenti non sanno farlo è un problema dei dirigenti. Questa è la retorica solita di chi non ha un progetto per riorganizzare la nostra pubblica amministrazione, che ivece ne ha bisogno perché quella di 50 anni fa non va più bene. Sono dispiaciuto che un premier così giovane non si stia dimostrando capace di farlo. I dipendenti pubblici sono già diminuiti di 400mila unità negli ultimi dieci anni e fino al 2018 ce ne saranno altri 50mila in meno. Poi ci sono più di 200mila precari. Che fine faranno? Con quali forme contrattuali lavoreranno? Un governo che non vuole diminuire l’occupazione deve chiedersi queste cose. E chi lavora deve essere messo in condizione di lavorare meglio».  

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