venerdì 12 dicembre 2014

Ma in quale luogo vi è stata un'adesione del 70%. I sindacati casta, come sempre, se la cantano e se la suonano.

E Renzi evita il frontale coi sindacati: rispetto lo sciopero. I suoi: Ma la minoranza Pd non rappresenta la piazza

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La parola d’ordine è non irridere, rispettare lo sciopero generale di Cgil e Uil, non attaccare. Nemmeno per quei cartelli spuntati a Milano su “Renzi il mostro di Firenze”. Lasciar correre. Stavolta Matteo Renzi non sceglie il frontale con i sindacati. Da Istanbul, dove partecipa al forum economico italo-turco, il presidente del Consiglio ripete il suo mantra: “Se rinviamo le riforme ci condanniamo ad un declino lento". Ma nel tono non c’è nulla che vada a sbattere contro l’orgoglio di Cgil e Uil che parlano di una partecipazione allo sciopero pari al 70 per cento e un milione e mezzo di persone in piazza. Nulla. Nemmeno una battutina alla Renzi. Tranne il ragionamento di fondo, e cioè che questo sia uno sciopero politico contro il governo, roba che Renzi ha avuto modo di mettere in chiaro già tempo fa e non ha cambiato idea. E’ la strategia comunicativa scelta apposta per stare alla larga da altri potenziali boomerang, come quello che ieri il premier ha evitato in extremis spingendo il ministro Lupi a fare retromarcia sull’annunciata precettazione dei ferrovieri. Renzi si risparmia per l’assemblea del Pd domenica, cioè per la resa dei conti in quello che è il suo spazio di azione, uno spazio politico: il partito. Ed è di disciplina di partito che parlerà ai circa mille delegati che si riuniranno all’Hotel Parco dei Principi.
La sede dell’assemblea infatti è stata spostata all’ultimo momento, ieri sera. Dal Salone delle Feste al Parco dei Principi, forse per evitare di tornare sul ‘luogo del delitto’, il Salone all’Eur che ha ospitato la cena di autofinanziamento del Pd cui ha preso parte anche Salvatore Buzzi, punto di riferimento del mondo cooperativo romano arrestato nell’inchiesta su mafia capitale. Parco dei Principi, dunque. Lì il premier-segretario tirerà le somme su tutti gli sgambetti orchestrati dalla minoranza Pd in Parlamento. Li richiamerà a rispettare la disciplina di partito con un voto sulla sua relazione. Una mossa che guarda ai prossimi passaggi in parlamento, a partire dalla legge elettorale che resta insabbiata sotto oltre diecimila emendamenti tanto che in prima commissione al Senato non prevedono di riuscire a licenziarla prima di Natale. E poi le riforme costituzionali, al palo alla Camera. E l’elezione del presidente della Repubblica, passaggio cruciale. Disciplina di partito: chi non la rispetta, si chiama fuori.
I toni annunciati per domenica sono questi. Ma, sottolineano i renziani della cerchia stretta, non sarà Renzi a pronunciare quel “fuori dal partito”. Non lo farà mai. Non darà a nessuno della minoranza la soddisfazione di sfruttare politicamente l’espulsione. Niente espulsioni e nessuna pubblicazione dei conti delle passate segreterie di Bersani o Epifani, come ventilato sui giornali. Nulla di tutto ciò: alimenterebbe lo scontro, l’Hotel dei Principi potrebbe trasformarsi in un ring. E non è questa l’intenzione di Renzi. Al massimo, dicono i suoi, chi tradisce non verrà ricandidato: di certo, ci saranno espulsioni dalle liste delle prossime elezioni politiche, quando avverranno. “L’anno prossimo: Renzi vuole andare al voto nel 2015”, si dice certo Stefano Fassina, che con gli altri esponenti della minoranza Pd, Gianni Cuperlo e Alfredo D’Attorre, oggi era in corteo con i sindacati a Roma. 
Nessuno tra i renziani si fa illusioni. Il premier sa che la conta sulla relazione di domenica potrebbe non risolvere i problemi interni al Pd, anche se sarà approvata a larga maggioranza, visti i rapporti di forza in assemblea. Per dirla in parole povere: si mette nel conto che la disciplina di partito sia ormai un concetto etereo tra i non renziani del Pd a trazione renziana. Per questo, come è solito fare anche quando parla nelle aule parlamentari, il premier-segretario rivolgerà la sua relazione all’esterno del Pd, al mondo fuori. Sarà “molto dura verso l’esterno”, dicono i suoi, impostata sul “noi e loro: noi che vogliamo fare le riforme, loro che le bloccano”. Concetto sul quale il mondo fuori sarà chiamato a riflettere, dice la scuola renziana. Nel ‘mondo dentro’ il Pd invece, al di là degli annunci di battaglia, si muoveranno le colombe per tentare di riportare a più miti consigli almeno una parte della minoranza. 
“Conviene anche a loro avere un atteggiamento più costruttivo, perché la politica tutta è sotto attacco: lo dimostrano le contestazioni di oggi a D’Alema al corteo sindacale di Bari…”, nota una fonte renziana, non senza una certa soddisfazione per gli attacchi a D’Alema, scelto insieme a Rosi Bindi come emblema del contrattacco del premier alla minoranza “che frena il governo e lavora per rovesciarlo...”. Ma al di là del compiacimento nemmeno tanto velato per le proteste baresi, il ragionamento che si fa nei circoli renziani alla luce di questa giornata di sciopero generale è che “nemmeno la minoranza Pd rappresenta la piazza, la gente è arrabbiata e non salva nessuno, in Emilia Romagna la gente non è andata a votare senza distinzioni tra questo o quello… Se la minoranza pensa di potersi impossessare del popolo arrabbiato, sbaglia di grosso…”.
A Renzi interessava l’approvazione del Jobs Act, che è avvenuta ben prima dello sciopero generale. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti dice che nella stesura dei decreti attuativi della legge delega “è previsto” il coinvolgimento dei sindacati. Ma in realtà il decreto principale, quello sul contratto a tutele crescenti, è già bell’e fatto tanto che potrebbe vedere la luce già a metà della prossima settimana, in contemporanea con l’approvazione della legge di stabilità al Senato. La riforma del lavoro è andata, lo sciopero pure. Da domenica si tirano le somme nel Pd e sul prosieguo della legislatura.

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