Padoan: “Non abbiamo paura della piazza. Sulle riforme andremo avanti”
Il ministro: nell’eurozona crescita insufficiente, non c’è molto tempo
Il ministro Padoan
13/12/2014
ALESSANDRO BARBERA*
ROMA
«Lo sciopero? Reazioni che non mi sorprendono. Una parte dei sindacati percepisce che stavolta la riforma cambierà veramente il mercato del lavoro». In fondo «la storia delle riforme è fatta anche di conflitti». I sei mesi al timone europeo sono finiti.
Ammette che la navigazione della grande nave è complicata e lenta. Per ora gli basta vedere la rotta. Seduto nel piccolo tavolo al centro della sua stanza al Tesoro, Pier Carlo Padoan manda messaggi in tutte le direzioni. Non tradisce emozioni. Si innervosisce solo quando riceve un sms che lo costringe a interrompere l’intervista. Sul tavolo ci sono due computer accesi, uno manda in tempo reale lo spread fra Bund, Btp e Bonos spagnoli.
Ministro Padoan, il semestre di presidenza dell’Unione si chiude fra nuovi timori sulla tenuta della Grecia. Siamo al secondo tempo di un film già visto?
«In Grecia c’è un momento di instabilità politica legato al rischio di elezioni. Non mi stupisce che i mercati reagiscano con nervosismo. La situazione è delicata, ma è molto diversa da quella del 2011 o del 2012».
Alexis Tsipras, probabile vincitore delle elezioni, chiede una ristrutturazione del debito. Che ne pensa?
«Non intervengo nelle valutazioni di altri governi, ma l’esperienza mi dice che una ristrutturazione ordinata del debito sia molto difficile da fare, e dunque che sia un grosso errore ipotizzarla».
Ciò che sta accadendo in Grecia potrebbe contagiare l’Italia?
«No, perché allora il contagio fu conseguenza di una debolezza diffusa. La tenuta degli spread italiano e spagnolo dimostra che oggi le conseguenze di crisi specifiche sono circoscritte».
In Europa non ci sono ancora troppe voci a sovrapporsi?
«La zona euro ha fatto grandi passi avanti per stabilizzarsi: sia sul lato dei conti pubblici, sia rafforzando il sistema bancario. Abbiamo fatto gli stress test e completato l’Unione bancaria, anche grazie ad un’ultima spinta italiana».
Che bilancio fa del semestre? Il vostro slogan era «cambiare verso anche all’Europa».
«Nell’area della moneta unica la crescita è insoddisfacente, peggiore di quella dell’Europa nel suo complesso. Dopo la presentazione del piano Juncker occorre una spinta da parte dei governi. La presidenza italiana è iniziata da qui, e noto con soddisfazione che i temi della crescita sono più centrali di quanto non lo fossero sei mesi fa».
La sensazione è che i tempi delle decisioni in Europa siano troppo lunghi rispetto a quelli dell’economia.
«È vero, non c’è molto tempo. Il divario sempre più ampio di crescita con gli Stati Uniti sta lì a dimostrarlo. L’Europa è a un bivio: una strada porta alla stagnazione, l’altra alla crescita. Oggi in Europa si sommano recessione, frammentazione istituzionale, scarsa fiducia reciproca. A queste condizioni è difficile avere una politica economica condivisa».
Il semestre è stato ispirato da tre parole: riforme, investimenti, occupazione. L’opinione pubblica però fatica a percepire questo nesso. In Italia c’è appena stato uno sciopero generale.
«Le resistenze non ci sorprendono. A mio avviso una parte del sindacato percepisce che questa volta la riforma cambierà veramente il mercato del lavoro. La storia delle riforme è anche una storia di conflitti - ovviamente democratici - perché le riforme cambiano gli incentivi, le convenienze, le posizioni di privilegio. Accanto alla reazione di chi ha privilegi c’è poi quella legata a una dimensione simbolica: l’articolo 18 è associato a un malinteso senso di protezione».
Il governo ha bisogno di riforme, ma anche di consenso alla sua sinistra. Non teme le resistenze?
«Il governo non ha paura. Questa riforma serve ad includere nel mercato del lavoro chi ne è stato escluso. Il dramma italiano è il gigantesco tasso di disoccupazione giovanile. I decreti attuativi del Jobs Act sono quasi pronti e realizzeranno la riforma in modo efficace».
La polemica fra l’Italia e la cancelliera Merkel non contribuiscono a minare la fiducia reciproca?
«Nei giorni scorsi è stata estrapolata dal contesto di una intervista una sua frase. Leggendola per intero era evidente che non ci fossero finalità offensive».
Eppure qualche problema coi tedeschi c’è. Non è dalla Bundesbank che stanno arrivando le maggiori resistenze al piano di espansione monetaria della Bce?
«Capisco che in Germania si possa avvertire meno la necessità di una politica espansiva, perché l’economia va meglio. Ma è normale che in un consesso di diciotto persone ci siano punti di vista diversi, e che alla fine le decisioni si adottino a maggioranza: è quel che avviene anche alla Fed. Quando le differenze di vedute fra singoli si amplificano a livello europeo, divengono divergenze fra Stati e si alimenta la diffidenza. Per questo bisogna andare oltre la dimensione nazionale».
Secondo lei alla fine il piano di Draghi passerà?
«Credo che si arriverà ad un quantitative easing, necessario a scongiurare il rischio oggi molto alto di finire nella pericolosa trappola della deflazione. Anche se sarà meno efficace che negli Stati Uniti, dove il mercato è davvero unico».
La lettera a Moscovici da parte di Italia, Francia e Germania è una presa di distanze dallo scandalo Luxleaks?
«Non c’è nesso fra le due cose. La lettera è l’invito alla Commissione ad accelerare i lavori per l’adozione entro il 2015 di una direttiva che permetta di superare il paradosso per il quale, pur restando nella legalità, un’impresa riesca a non pagare o quasi le tasse in Europa».
La strada decisa dall’Inghilterra, che introdurrà una sorta di Google tax, è percorribile?
«Non so se arriveremo ad un esito di quel tipo, la discussione è più indietro di così. Durante questo semestre ci siamo resi conto che l’armonizzazione fiscale è una delle cose più difficili da realizzare. In ogni caso quella decisione va interpretata come un segnale importante».
Il piano Juncker promette di essere operativo solo a giugno.
«Sì, giugno è lontano. Mentre aspettiamo che il fondo sia operativo, la Banca europea per gli investimenti ha progetti e risorse che possono essere mobilitate subito. Gli chiediamo di essere disposta ad assumersi qualche rischio in più».
Una delle richieste più decise dell’Italia, e non da ieri, è di introdurre una regola d’oro per scorporare gli investimenti dal patto di Stabilità. Siamo ancora lontani dall’ottenere questo risultato. O no?
«Il principio della golden rule serve a stabilire che una parte della spesa è migliore di altre, e che per questo merita di essere incentivata. Ci sono progetti di investimento che costituiscono uno spreco, e spesa corrente che migliora l’istruzione, produce innovazione, crea occupazione, come ad esempio quella che utilizzeremo per finanziare il Jobs Act. Dovremmo passare dalla valutazione di intere categorie di spesa a singoli progetti di rilevanza europea».
A proposito di ostacoli agli investimenti. La vicenda di Roma non è scoraggiante per lei?
«Queste notizie fanno male, ma sono anche uno stimolo a reagire. Avevamo già istituito un’autorità anticorruzione, questo caso ci spinge ad una reazione ancora più rabbiosa».
C’è chi sostiene la seguente tesi: la corruzione in Italia non è superiore a quella di altri Paesi, ma in Italia c’è un atteggiamento autolesionista che spinge a ingigantire singoli casi.
«Non so se in Italia ci sia più corruzione o meno che altrove, ma è vero che nel dibattito pubblico c’è un gusto quasi sadico nel trovare gli aspetti più maliziosi, e questo può alimentare la cosiddetta corruzione percepita».
Twitter @alexbarbera
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