Mafia Capitale, così la nebbia ha lasciato la Procura di Roma. L'organizzazione punta sul "Capitale umano" (FOTO, VIDEO)
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La nebbia si è dissolta. E nel porto adesso può riprendere la navigazione. Che era ferma da anni, decenni, c’è chi dice da sempre, perché così vanno le cose nella Capitale: si gira si gira ma in tondo, ché tanto il porto è grande e ce n’è per tutti. Nonostante e grazie alla nebbia.
La decisione con cui venerdì sera il giudice Bruno Azzolini, presidente della III sezione del Tribunale di Roma, ha blindato l’accusa di mafiosità nei confronti del generone rosso-nero che è l’ossatura di Mafia Capitale corrisponde a quel momento in cui sale la brezza, il freddo e caldo non condensano più l’umidità, la nebbia viene spazzata via. La contestazione del reato 416 bis regge e viene confermata dal terzo giudice (quello del Riesame dopo il gip e l’altro del sequestro dei beni) in poche settimane. Carminati e soci restano in carcere come gli altri 21 dei 39 arrestati con l’accusa, tra le altre, di associazione mafiosa (tra i 40 indagati, il 416 bis è contestato in 16 posizioni).
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Le vie del diritto e della giurisprudenza sono quasi infinite (perdonate l’ossimoro). E ci sarà ancora una lunga battaglia legale per dimostrare che “a Roma la mafia non c’è”, che la “vera mafia sta altrove” e che questi sono “delinquenti comuni che rubano, certo, ma che c’entra la mafia”. La storia e la cronaca ci insegnano che il primo indizio di mafiosità è negare la mafia. “I boss babbiano sempre” ha ben scritto e raccontato Francesco Merlo su Repubblica pochi giorni fa. Intanto però a Roma la mafia c’è. E lo scrivono i giudici.
L’istruzione di questa indagine e del processo che ne seguirà rinvia simbolicamente, pur nella diversità dei numeri e dei fatti, alla seconda metà degli anni ottanta quando a Palermo un gruppo di giudici tra cui Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello e Piero Grasso misero in piedi il primo maxi processo a Cosa Nostra. C’erano stati 200 morti ammazzati tra cui il generale Dalla Chiesa, tanti giudici e poliziotti, politici come Pio La Torre che con Rognoni nel 1982 aveva scritto il reato di associazione mafiosa. Per la prima volta la giustizia, lo Stato erano riusciti a connettere i fili di una storia criminale che tutti vedevano ma nessuno voleva collegare. Perché prevaleva la voce dei boss che ripeteva: “Cosa Nostra? Noi la chiamiamo amicizia”.
Giuseppe Pignatone è diventato procuratore di Roma nel febbraio 2012. Pochi mesi dopo lo ha raggiunto un magistrato che è un po’ il suo alter ego, Michele Prestipino. Hanno lavorato insieme prima a Palermo e poi a Reggio Calabria. Nel 2006 hanno arrestato, dopo 40 anni di latitanza, Bernardo Provenzano. Arrivano a piazzale Clodio e cercano di rispondere a una domanda che non ha risposte da decenni: esiste la mafia a Roma? Posta la questione, l’analizzano secondo un metodo empirico e logico. Quasi banale. Che possiamo riassumere in quattro mosse. Tanto semplici quanto rivoluzionarie. Come spesso accade alla verità.
1) Il lavoro di squadra. Gli uffici della più grande cittadella giudiziaria d’Italia sono un mondo complesso, pieno di incrostazioni, dove la regola principe è sempre stata il compromesso. Fare senza strafare. Agire ma sapendo che la politica ha i suoi tempi, i suoi metodi e riti. Ecco che Pignatone ha riorganizzato l’ufficio lasciando da parte alcuni colleghi certamente per bene ma troppo “timidi” per segnare una discontinuità. E ascoltato le voci, rimaste isolate, di pm e sostituti che invece sostenevano che certi dubbi vanno approfonditi.
2) Il monitoraggio ragionato e organico dei fascicoli. “Abbiamo solo letto insieme tanti fascicoli già avviati da altri colleghi” ha ammesso Pignatone davanti all’Antimafia. C’era l’indagine per minacce, quella per violenza privata, l’altra per droga, altre sparse su vari episodi di corruzione nella pubblica amministrazione (Ama, Atac, Eur spa, Finmeccanica etc), esposti sui costi esorbitanti nella gestione dei campo rom. Chiamati a raccolta i titolari dei fascicoli, sono emerse subito le connessioni: nomi, luoghi, momenti. Pezzi di un puzzle che aveva un’unica cornice. Bastava volerla vedere.
3) Le modalità operative della Direzione distrettuale antimafia. Che ha seguito due direzioni: a) Non si è cercata la quantità ma la qualità. Ad esempio: meno arresti per spaccio spicciolo e maggiore attenzione a ricostruire l’organizzazione dello spaccio. Anche perché la droga è da sempre il business delle organizzazioni criminali. b) E’ stato privilegiato il binario del sequestro dei beni dei gruppi criminali. Un miliardo 200 milioni nel 2014 e 700 nel 2013, il triplo e il doppio degli anni precedenti. Follow the money, il precetto di Falcone.
4) Il “capitale sociale”. Chi segue queste vicende ricorderà l’espressione coniata nell’inchiesta Crimine Infinito (2011) quando Milano (Ilda Boccassini) e Reggio Calabria (Pignatone) dimostrarono come la ’ndrangheta faceva affari al nord utilizzando una rete di professionisti insospettabili nella politica, nei tribunali e tra i manager. Per la prima volta la procura non ha avuto timore di guardare negli occhi “il capitale sociale” di Roma e della sua organizzazione criminale. Saltano fuori i 18 politici coinvolti, dall’ex sindaco Gianni Alemanno al presidente del consiglio comunale Mirko Coratti (Pd), passando per assessori comunali e regionali e sindaci della provincia. Salta fuori il commercialista, uno dei più noti in città, Luigi Lausi (indagato per associazione mafiosa), che siede in decine di cda e collegi revisori ed è amministratore giudiziario di enti (Eur spa) e di patrimoni mafiosi (Fasciani). Lausi consuma, con la stessa facilità, aperitivi con l’ex Nar e cene con i principali notabili della città, compresi vertici investigativi e giudiziari.
C’è l’avvocato penalista, Gianpaolo Dell’Anno, figlio del giudice di Cassazione che era nel collegio di Carnevale, sposato con un giudice che è dirigente in un importantissimo, vitale ufficio istituzionale. Lo studio di Dell’Anno è considerato nelle indagini “il luogo d’incontro dei vertici delle associazioni criminali in città e nel Lazio”. Spunta Luca Odevaine, il regista dell’emergenza immigrati, quello che dettava luoghi e costi, con le sue ramificazioni in prefettura e al Viminale ancora tutte da approfondire. Quando erano a Reggio, Pignatone e Prestipino dissero che “bisogna stare attenti a chi si dà la mano in città”. A Roma non l’hanno ancora detto. Ma forse lo pensano.
Quattro mosse. Il risultato è Mafia Capitale, organizzazione “originale”, “originaria”, che “privilegia la corruzione ai morti per strada” ma che usa violenza, intimidazione, omertà per fare affari. E con “un capitale umano” ancora molto da scoprire. Un “mondo di mezzo” che forse non vuole scoprirsi né accettarsi come complice.
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