L’arlecchinata di Grillo
Beppe Grillo spara anche la cartuccia della dissoluzione dell’Italia ed evoca il ritorno all’«identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia e il Regno delle due Sicilie». Non è chiarissimo che cosa intenda: Grillo parla di macroregioni, poi paventa referendum di cittadini lombardi che stufi dell’Italia vorranno un giorno unire la Lombardia alla Svizzera, di Altoatesini che si annetteranno all’Austria (nel caso, più plausibile).
Non è neppure chiaro quanto indietro si debba tornare nell’immaginare il nuovo assetto istituzionale post-unitario. Del resto la Repubblica di Venezia, che fu davvero uno stato glorioso e dalle caratteristiche straordinarie, al momento dell’unità italiana era morta e sepolta. E poi chiederemo la riannessione a Venezia di Dubrovnik e Cipro e di un quartiere di Bisanzio? E il Regno delle due Sicilie, lo sa Grillo che era costituito da due regni distinti sotto la stessa corona? Come lo riesumiamo, col doppio regno o lo dividiamo in due? Chiediamo l’intervento angioino o borbonico? Al papa restituiamo qualcosa? Non si sa.
Si sa solo che l’Italia, dal 1861, per la storiografia grillina ha prodotto solo disastri, guerre coloniali (Francia, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Olanda invece no?), ha dato vita al fascismo (la Germania no?), guerre mondiali (il mondo no?). Ci siamo così tanto legati a una visione declinista del nostro paese che ci dimentichiamo che 150 anni fa il Regno Unito era un impero che governava il 25 per cento del mondo, la Francia possedeva mezz’Africa (la chiamavano ancora in tempi recentissimi la Françafrique), per non parlare degli Austroungarici e degli altri. Intendiamoci, si tratta anche questa di una ricostruzione fatta con l’accetta, ma sarebbe bello un giorno fare un grafico per capire quale tra i paesi europei negli ultimi 150 anni è declinato di più e quale è avanzato di più in termini di civiltà e prosperità. La verità è che Grillo chiama con disprezzo l’Italia «un’arlecchinata di popoli, di lingue e di tradizioni» senza rendersi conto che è proprio quello il cuore positivo della nostra convivenza unitaria.
Quello che invece è chiaro è lo schema ingenuo, che è tipico del dibattito degli ultimi vent’anni, che si applica ogni volta che si parla di smembramento del paese: non avendo la minima idea su come risolvere i problemi oggettivi dell’Italia, ci si inventa una divisione in tante piccole Italie che, per definizione, non hanno problemi, non hanno debito pubblico, hanno sistemi bancari perfetti, hanno titoli di stato che si vendono come quelli della Germania, non delocalizzano, non hanno disoccupazione, hanno una politica estera. Insomma si fa tacitamente pensare che tutte quelle riforme che l’Italia non è riuscita a fare a causa delll’incrocio conservatore degli interessi di categorie, di corporazioni, di gruppi e, semplicemente, degli italiani che badano solo al proprio particolare, riusciranno a essere fatte dalle Padanie, dalle repubbliche venete e sarde, come se padani, veneti, sardi (e tutti gli altri), cioè gli italiani, per magia diventassero altro da quello che sono.
È il sogno, un po’ cialtrone, di una palingenesi regionale, di una dilazione sine die dello sforzo di riforma di cui il nostro paese arlecchino ha bisogno ora o non farà mai più.
È il sogno, un po’ cialtrone, di una palingenesi regionale, di una dilazione sine die dello sforzo di riforma di cui il nostro paese arlecchino ha bisogno ora o non farà mai più.
Temo tuttavia che il post di Grillo sia anche meno epico di tutto questo. Esauritasi con gli scontrini e con le espulsioni la missione moralizzatrice grillina, presentato vuoto per le elezioni europee il paniere dei risultati dell’armata a 5 stelle in parlamento, persa quasi ogni fascinazione sull’elettorato di centrosinistra e di centrodestra, Grillo attacca uno dei pochi spazi rimastigli, gli elettori della Lega.
Venezia, i Borbone, Arlecchino, la storia colorata e ricchissima della nostra penisola, come al solito vengono convocati non per quello che hanno di più positivo e creativo, ma per fare due saltelli sul palco della commedia dell’arte di una politica sempre più piccola.
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