LA VERA SFIDA DI RENZI
Flessibilità, mito infranto del lavoro in Italia
Altro che flessibilità, la riforma del lavoro deve ripristinare il legame fra salari e produttività
INDICE ARTICOLO
Da molti decenni si discute in Italia di riforme del mercato del lavoro. Le riforme proposte e realizzate si sono concentrate soprattutto sugli aspetti che riguardano la flessibilità: la disciplina della cosiddetta mobilità in entrata ed in uscita, i costi ed i tempi dei licenziamenti e delle assunzioni, il dibattito sull’articolo 18, le forme contrattuali più idonee ad assicurare, prima, questa flessibilità (la riforma Treu 1997, Biagi 2003), poi, a mitigarne le conseguenze: la precarietà ed il dualismo tra lavoratori protetti e non protetti. Infine, le riforme più recenti (Fornero 2012) hanno esteso le tutele del reddito, quali le indennità di mobilità e disoccupazione. Le proposte di riforma oggi al centro del dibattito politico, il Jobs Act di Renzi, riguardano ancora una volta le forme contrattuali più idonee a coniugare flessibilità e tutele dei lavoratori.
Il presupposto economico di queste riforme è che si debba favorire un mercato in cui i lavoratori che perdono il posto nelle imprese e nei settori meno produttivi, e i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro, possano rapidamente trovare un impiego nelle imprese e nei settori più produttivi, quelli in espansione. In questo modo, si tutelano i lavoratori ma non gli impieghi improduttivi, e si stimola la crescita della produttività del lavoro.
Se guardiamo però ai risultati che le riforme sino a qui messe in atto hanno avuto sulla produttività del lavoro il quadro è sconfortante. La figura sottostante mostra gli indici di produttività oraria del lavoro in Italia e Germania a partire dal 2000 (si noti che nella figura si è posto uguale a 100 il valore del 2008). La stagnazione della produttività italiana negli ultimi 13 anni non potrebbe essere più evidente. Difficile pensare che senza le riforme la produttività sarebbe stata ancora peggiore.
In questo articolo sosteniamo che le precedenti riforme del mercato del lavoro, concentrandosi principalmente sugli aspetti legati alla flessibilità, hanno trascurato un aspetto cruciale: quello degli incentivi.
Affinché la flessibilità funzioni, è necessario che stipendi e salari diano i segnali “giusti”, ovvero che riflettano la produttività del lavoro. Questo in Italia non avviene in misura adeguata. Solo se i salari riflettono la produttività, i settori e le imprese più produttive possono attrarre lavoro (e capitale) ed espandersi. Di conseguenza, una riforma del mercato del lavoro che ambisca a favorire la crescita della produttività deve affrontare il nodo cruciale della contrattazione.
La nostra analisi raggiunge due importanti conclusioni che mostrano un grave inceppamento della funzione allocativa del mercato del lavoro italiano: 1) a partire dal 2000 in Italia i salari sono cresciuti di più nei settori dove la produttività del lavoro è cresciuta di meno; 2) Nel breve periodo, l’occupazione tende a spostarsi verso i settori produttivi in cui la produttività del lavoro aumenta di meno.
Consideriamo gli effetti di un’innovazione tecnologica che accresce la produttività del lavoro in un settore produttivo. Le imprese di questo settore faranno maggiori profitti e vorranno espandersi assumendo più lavoratori. Di conseguenza, saranno disposte a pagare un salario maggiore rispetto a altri settori. Dunque, inizialmente aumenterà il salario del settore e questo attrarrà parte dei lavoratori degli altri settori. Nel tempo l’occupazione tenderà a spostarsi verso il settore più produttivo riducendo le diseguaglianze salariali tra i settori.
Si noti che esattamente le stesse conseguenze si avrebbero nel caso in cui le imprese del settore in questione fossero “protette” dalla concorrenza e riuscissero ad aumentare i prezzi più che negli altri settori realizzando maggiori profitti (questo sembrerebbe il caso del settore immobiliare in Italia, o, in misura minore, al settore pubblico in Germania, settori le cui quote di occupazione sono aumentate, insieme ai prezzi, nonostante sia calata la loro produttività relativa, - si veda la Tabella 1).
La nostra analisi si basa su dati trimestrali settoriali di Eurostat, rielaborati da Zsolt Darvas (2012) del centro di ricerca Bruegel, contenenti informazioni dal 2000 al 2013 per Italia e Germania sul numero di occupati, le ore di lavoro, i salari orari, la produttività oraria (valore aggiunto per ora di lavoro), i prezzi dei beni (deflatore del valore aggiunto settoriale) per 6 settori: settore pubblico, finanza, settore immobiliare, costruzioni, servizi, manifatturiero. Ci poniamo queste domande: 1) i salari reali rispecchiano la produttività dei settori nei due paesi? 2) Le quote di occupazione rispecchiano la produttività relativa del lavoro nei settori?
La Figura 2 confronta salari e produttività, settore per settore, in Italia e Germania. Ogni puntino rappresenta un settore produttivo in un dato anno, e le sue coordinate sono, sulle ascisse, la produttività espressa in percentuale di quella degli altri settori, e sulle ordinate, il salario relativo, costruito allo stesso modo (1).
In Germania, con l’eccezione del settore immobiliare, le osservazioni (puntini rossi) si dispongono intorno a delle rette positivamente inclinate: il salario di un settore tende ad aumentare, relativamente agli altri, quando la produttività relativa aumenta. Questo vale molto meno per l’Italia (puntini blu) dove la relazione tra salario e produttività appare molto più “piatta” rispetto alla Germania, e spesso non risulta statisticamente significativa. L’eccezione è il settore pubblico, ma ciò è probabilmente dovuto ad un artificio statistico (2). In sostanza, i salari relativi in Italia sembrano rispondere molto meno che in Germania alla produttività relativa, nel breve termine.
Figura 2
Molto istruttiva è la Figura 3, che riassume l’andamento di salari, produttività, prezzi e occupazione dei settori produttivi in Italia e Germania negli ultimi 13 anni. Nel primo riquadro a sinistra, ciascun puntino rappresenta un settore, le cui coordinate sono la crescita cumulata della produttività relativa tra 2000 e 2013 (asse delle ordinate) e quella del salario relativo (asse delle ascisse). In Italia (in blu) i puntini si distribuiscono intorno ad una retta inclinata negativamente: i salari sono cresciuti relativamente di più nei settori dove la produttività è aumentata relativamente di meno. In Germania, invece, i settori (in rosso) si dispongono intorno ad una retta con una (modesta) inclinazione positiva.
Il pannello centrale mostra la relazione tra crescita della quota di occupati di un settore e la crescita della sua produttività relativa. I puntini blu relativi all’Italia si dispongono ancora una volta lungo una retta negativamente inclinata: a crescere di più in termini di occupazione sono stati i settori che hanno avuto una minor crescita della produttività relativa (i puntini rossi dei settori tedeschi invece si dispongono lungo una retta positivamente inclinata). Il riquadro di destra infine, mostra la correlazione parziale tra l’andamento dell’occupazione ed i prezzi dei beni: in Italia, ma non in Germania, tale correlazione risulta positiva. L’occupazione sembra crescere di più nei settori dove i prezzi crescono di più.
Figura 3
Nel seguito impieghiamo un semplice modello econometrico che ci permetta di stimare di quanto salari e occupazione rispondono alla produttività (e ai prezzi relativi), sia nel breve periodo, un trimestre, che nel lungo periodo, il cosiddetto “stato stazionario”. I risultati sono riportati nella Tabella 2.
Questa tabella mostra gli effetti di un aumento della produttività relativa su salario relativo del settore e sulla sua quota di occupati. La prima colonna mostra l’effetto di impatto nello stesso trimestre, mentre la seconda colonna riporta l’effetto cumulato di nel lungo periodo. L’analisi econometrica conferma i risultati illustrati dai grafici visti in precedenza. Nel breve periodo, in Italia, un aumento di un punto percentuale della produttività relativa del settore (prima colonna) ha un effetto sul salario relativo trascurabile, un centesimo di punto percentuale: un impatto venti volte più piccolo che in Germania. Nel lungo periodo, un aumento di produttività relativa di in punto percentuale si associa in media ad unacaduta del salario relativo di oltre un terzo di punto, mentre l’effetto non è significativamente diverso da zero in Germania (come previsto anche dal modello, dove nel lungo periodo i salari settoriali tendono a convergere). Inoltre, nel breve periodo le quote di occupazione settoriale tendono a ridursi quando la produttività settoriale cresce, in un rapporto di quasi di 1:1 Questo effetto di “misallocazione delle risorse”, pur presente anche in Germania, è quattro volte più forte in Italia. Gli effetti di lungo periodo della produttività sulle quote di occupazione non sono significativi in entrambi i paesi.
I dati stilizzati e l’analisi econometrica suggeriscono che 1) in Italia, a differenza di quanto avviene in Germania i salari riflettono pochissimo la produttività dei settori nel breve periodo, mentre la loro tendenza di lungo periodo è di aumentare di più dove la produttività cresce di meno; 2) i salari relativi rispondono piuttosto ai prezzi relativi; e 3) gli occupati tendono a spostarsi verso i settori meno produttivi.
È chiaro che in queste circostanze una maggiore flessibilità del lavoro rischia di produrre effetti perversi se l’occupazione si sposta verso settori maggiormente protetti, e meno efficienti, anziché verso quelli più produttivi. Questo fallimento nella funzione allocativa del mercato del lavoro danneggia la crescita della produttività totale e chiama in causa il modello di contrattazione dei salari. Quali sono gli aspetti critici?
In Italia la percentuale di lavoratori i cui contratti sono coperti da qualche forma di contratto collettivo rimane tra quelle più elevate tra i paesi occidentali, attorno all’85%, e questo nonostante la quota di lavoratori sindacalizzati si collochi in una fascia relativamente bassa nel confronto internazionale, vicina al 30%. Questo avviene perché i contratti collettivi vengono spesso applicati anche ai lavoratori non iscritti ai sindacati e al di fuori dei settori di origine, cosa che ne estende considerevolmente la portata. Inoltre, la durata media dei contratti collettivi è nominalmente di tre anni (accordo interconfederale del giugno 2011), ma la durata effettiva è di fatto estesa da sistematici ritardi nei rinnovi contrattuali. Tale aspetto contribuisce probabilmente a frenare ulteriormente la trasmissione della produttività ai salari.
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In Italia la possibilità di rendere la contrattazione più vicina alla dimensione aziendale venne tentata nel 2011 (riforma Sacconi, art. 8 del Decreto n. 138) ma senza successo (3). Attualmente solo il 30-40% delle imprese utilizza la contrattazione aziendale, percentuale che tende a zero per le imprese del Sud. Molto diverso è l’assetto istituzionale in Germania: la contrattazione collettiva settoriale avviene a livello di Lander, e ciò contribuisce a rendere il salario più corrispondente alla produttività specifica d’impresa in presenza di forte eterogeneità territoriale, cosa che ci accomuna alla Germania. Inoltre in Germania le parti sociali possono agevolmente derogare alla contrattazione settoriale in diverse materie (mansioni, orari di lavoro e condizioni salariali) in caso si renda necessaria una ristrutturazione aziendale. Questa clausola di “opt-out” è stata recentemente introdotta anche in Spagna, e ha permesso una maggiore rispondenza tra salari e produttività a livello di impresa.
Nella scala delle priorità delle riforme del lavoro si dovrebbe dunque ripristinare innanzitutto il legame tra salari, produttività a livello di impresa e lavoratore, e limitare gli aspetti collettivi al ruolo di tutela di standard minimi. Introdurre nuovi elementi di flessibilità in un mercato del lavoro distorto avrebbe effetti negativi o nulli su produttività, salari e occupazione.
L'analisi completa verrà pubblicata nelle prossime settimane da Linktank
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Note
(1) Per evitare che la correlazione tra queste variabili sia distorta dalla presenza di altri fattori, quali i prezzi relativi dei beni e le caratteristiche specifiche al settore), nel grafico riportiamo le cosiddette “correlazioni parziali” tra salari e produttività relative, che “filtrano via “ gli effetti delle altre variabili. Le variabili sono espresse in logaritmi.
(2) La produttività oraria del settore pubblico è misurata come rapporto tra spesa per l’impiego e ore lavorate ed è per costruzione positivamente correlata ai salari.
(2) La produttività oraria del settore pubblico è misurata come rapporto tra spesa per l’impiego e ore lavorate ed è per costruzione positivamente correlata ai salari.
(3) la riforma autorizzava le parti sociali a derogare dal contratto nazionale collettivo su molte materie. In realtà, la legge non prevedeva tra queste anche il salario. Per di più, essa limitava ai “sindacati più rappresentativi” la titolarità di questa opzione. E poiché questo requisito non è mai stato definito, la riforma è risultata difficilmente applicabile.
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