Regionali. Matteo Renzi vola a Herat e medita sul voto: ora nel Pd serve un codice di comportamento
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Altro che play station. Al Nazareno, la notte dei risultati di queste tribolate elezioni regionali 2015, Matteo Renzi è arrabbiatissimo. E la partita contro Matteo Orfini, davanti allo schermo, joystick e tanta concentrazione, non basta per riportare il sereno. I dati in arrivo dalle regioni non sono esaltanti. Gli sfoghi del premier-segretario si abbattono sui civatiani, che “hanno fatto perdere la Paita in Liguria”. Ma anche sulla minoranza Dem che non vuole uscire dal Pd ma che continua a criticare ogni decisione. Per dire: a Renzi non è piaciuta l’ultima intervista di Pierluigi Bersani al Corriere della Sera. La considera una sorta di ‘suggello’ all’operazione iniziata con le primarie in Liguria e l’addio di Sergio Cofferati al Pd. Sfoghi che Renzi condivide con i suoi. Con lui alla sede del partito ci sono Ettore Rosato, Lorenzo Guerini, Debora Serracchiani e naturalmente Orfini. Insomma tutto lo stato maggiore del suo Pd. Gli stessi che il premier in mattinata manda davanti alle telecamere a rivendicare la vittoria, mentre lui parte per una visita a sorpresa a Herat, dai “nostri ragazzi in missione in Afghanistan”. Da lì arriva il suo unico commento ufficiale, nota scarna: “Siamo passati dal 6 a 6 al 10 a 2” di regioni governate dal centrosinistra tra quelle andate al voto dal 2013 a oggi. Il fatto è che in Afghanistan Renzi ci va col nodo in gola. Le cinque lunghe ore di volo gli servono per mettere a fuoco una strategia. Primo pensiero: nel Pd serve un codice di comportamento perché le decisioni della maggioranza siano rispettate. Secondo: rinnovare il partito, se necessario anche ai vertici.
“Non può essere che ogni volta le decisioni della maggioranza vengono contestate da 30-40 parlamentari che sembra facciano a gara per creare problemi al governo”, ragiona un dirigente Dem molto vicino al premier. Si può dire quindi che il primo ‘capro espiatorio’ del post elezioni sia la minoranza Dem, che ha già presentato 300 emendamenti sulla ‘Buona scuola’ in commissione al Senato. Insomma: il problema è cogente. Questione di giorni. “Si dà un brutto spettacolo con un Pd sempre diviso, attraversato da tensioni su ogni provvedimento, come se ogni volta ci fosse un caso di coscienza…”, continua la stessa fonte. Per il premier sta qui una parte del problema con le regionali, ammesso che problema ci sia visto che ufficialmente continua a rivendicare vittoria, punto e basta. Il codice di comportamento è un tema di cui il segretario parlerà di certo in direzione nazionale Dem, lunedì prossimo. Un tema da statuto del Pd, che probabilmente potrebbe essere affrontato nell’assemblea nazionale di giugno. “Deve essere chiaro che quando si prende una decisione a maggioranza, si rispetta. Sennò non siamo un partito e questo gli elettori lo vedono e pesano nelle urne”, dice un renziano di rango dietro anonimato.
Dunque il problema non sono solo i civatiani che sono andati via. Ma anche la minoranza che resta nel partito. I bersaniani, i cuperliani, insomma – per parlare dei casi più attuali – i 21 senatori di minoranza firmatari degli emendamenti sulla scuola, provvedimento che deve essere approvato entro la metà di giugno per far scattare già a settembre l’assunzione dei precari. “Se vogliamo durare fino al 2018, bisogna che la maggioranza di governo funzioni”, dicono dalla cerchia del premier. Anche perché le regionali non lasciano sperare in nuovi apporti da parte di Forza Italia, non più, non come si sperava prima del voto. Perché il crollo del partito di Berlusconi c’è stato, da pronostico, ma è ‘camuffato’ dalla vittoria di Giovanni Toti in Liguria. E dunque non c’è molto da sperare in un ritorno del Patto del Nazareno. Va rimesso a posto il Pd per durare al governo. Il ritorno al voto è escluso, almeno per ora.
Ma c’è un secondo punto nelle considerazioni post voto di Renzi. “Dopo il voto di ieri andiamo avanti con ancora maggiore determinazione nel processo di rinnovamento del partito e di cambiamento del paese”, dice il premier da Herat. Il rinnovamento del partito è un tema sul piatto. Oggi ne parlavano alla buvette di Montecitorio tre parlamentari renziani, prendendo un caffè: “Bisogna rivoltare il partito come un calzino…”. Perché – e questa è l’altra lettura – uno dei problemi di queste regionali è stata l’assenza di candidati figli del nuovo corso renziano. A parte Paita e Alessandra Moretti. Ma oggi, all’indomani della sconfitta in Veneto e Liguria, nemmeno loro sono renzianissime per il giglio magico del premier. Di fatto, nei territori, il nuovo corso non si è compiuto, ti dicono. “In effetti Renzi si è dedicato più al governo che al partito in questo primo anno a Palazzo Chigi”, dice un renziano sempre dietro anonimato. Perché nessuno mette nomi e cognomi su dichiarazioni che vadano oltre la linea ufficiale: abbiamo vinto. E dunque rinnovamento nel partito. C’è chi dà per scontato un “rimescolamento” al vertice. C’è chi dà vede Lorenzo Guerini già a fine corsa nel suo ruolo di vicesegretario. Chi indica in Luca Lotti o Maria Elena Boschi i due probabili sostituti. Ma questo non è un tema che Renzi voglia trattare a giorni. Darebbe l’impressione di una caccia al capro espiatorio tra i suoi. E invece “Il risultato del voto è molto positivo”, insiste da Herat. Quale capro espiatorio?
Ma con la minoranza la musica è un’altra. Se il Pd non sfonda, se esce dalle regionali perdendo pezzi e voti, pur vincendo in cinque regioni su sette, se non è il Pd delle Europee la responsabilità è racchiusa nelle divisioni interne. Anche se – c’è da dire – il paragone con le europee 2014 è bandito al quartier generale renziano. “E’ come paragonare mele e pere”, dice il renziano Dario Parrini, segretario regionale in Toscana. Ma il renzismo ha rallentato la sua corsa. E anche la linea comunicativa oscilla. Oggi, per dire, uno tra i più renziani del Parlamento non addossava la colpa della sconfitta in Liguria ai civatiani. Ma solo per dire: “Non li temiamo". E poi: "Forse abbiamo sbagliato noi la candidata". E ancora: "Ma Paita non è renziana doc…”. Difficoltà. Dalle quali il premier si tiene lontano. Mimetica sui jeans e via dai soldati italiani a Herat, visita in realtà pensata già a metà della scorsa settimana e comunicata al Quirinale come il motivo che avrebbe comportato la sua assenza al ricevimento per la Festa della Repubblica al Colle.
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