Richard Wright, nel suo "Black boy" (pubblicato nel 1945) racconta come ogni volta che un membro della comunità afro-americana commetteva un delitto, mai questo veniva descritto come opera di una persona indicata con nome e cognome o di "un negro": sempre la responsabilità era "dei negri". È impossibile che non venga in mente quella riflessione del grande scrittore afro-americano, leggendo le notizie e i commenti a proposito di quanto accaduto ieri in un quartiere romano. Le domande sono necessariamente le stesse: perché, per indicare i responsabili dell'incidente che ha provocato una strage, è irresistibile la tentazione a definirli non con nomi e cognomi bensì attraverso l'etnia alla quale appartengono? Perché non segnalare il nome degli autori del reato ma immediatamente la minoranza o il gruppo sociale o il popolo di cui sarebbero membri?
Nella fatica di distinguere tra responsabilità individuale per un reato e tendenza a generalizzare quando l'autore appare diverso da noi, c'è tutta la difficoltà a non essere razzisti.
Simile a questo è il meccanismo per cui richiedenti asilo e rifugiati che sbarcano sulle nostre coste sono diventati, attraverso un uso perverso del linguaggio, clandestini: e, quindi, inevitabilmente nemici da respingere e discriminare.
Simile a questo è il meccanismo per cui richiedenti asilo e rifugiati che sbarcano sulle nostre coste sono diventati, attraverso un uso perverso del linguaggio, clandestini: e, quindi, inevitabilmente nemici da respingere e discriminare.
E in questo quadro i rom rappresentano, tra i diversi gruppi sociali e le diverse minoranze - in una sorta di cupa gerarchia dell'odio - il gradino più basso e quindi il bersaglio privilegiato di quella macchina del pregiudizio così attiva in queste ore.
Abbiamo vissuto per decenni con il tabù del razzismo perché le culture più diffuse nel nostro Paese avevano prodotto un'interdizione morale nei suoi confronti, al punto che l'accusa di razzista era quella socialmente più riprovevole. Tale atteggiamento ha rappresentato per anni uno strumento di tutela nei confronti dell'intolleranza etnica, e ha ben funzionato. Ma poi è accaduto qualcosa. C'è uno spartiacque temporale ed è quello dell'autunno del 2007 quando a Roma Giovanna Reggiani fu uccisa da un romeno. Da quel momento, ciò che veniva solo sussurrato in alcuni ambienti sociali e politici poco significativi si è fatto discorso elettorale, ed è stato quindi pronunciato a voce alta: l'equazione romeno uguale stupratore è diventata nei mesi successivi uno degli argomenti della campagna elettorale per il comune di Roma e per il Parlamento nazionale. Per la prima volta il tabù del razzismo viene eroso e il ricorso alla stigmatizzazione del diverso da noi è diventato il principale strumento di molta parte del ceto politico.
L'operazione, che consiste nel trasferire il disagio patito da ampi strati popolari sul piano pubblico, trasformandolo in risorsa politica, si è rivelata assai efficace in quella tornata elettorale, sia a livello comunale che a livello nazionale. E risale esattamente a quel periodo e a quel clima l'elaborazione di quel Piano Nomadi che oggi celebra il suo fallimento: ovvero il decreto del governo Berlusconi-Maroni che portò alla realizzazione di decine di grandi campi nelle periferie delle città, a 470 sgomberi in tre anni e alla spesa di decine di milioni di euro. In altre parole, quei campi che Matteo Salvini vorrebbe "spianare con la ruspa" sono la brillantissima opera urbanistica e architettonica del suo mentore Roberto Maroni. L'intera operazione è stata dichiarata illegittima da alcune sentenze con costi altissimi in termini di integrazione, risorse e sicurezza sociale. E che le conseguenze perverse di quel sistema, sono allo stesso tempo causa ed effetto della discriminazione delle comunità rom.
Ma va ricordato che l'uso strumentale di quanto accaduto ieri a Primavalle e la criminalizzazione della marginalità sociale costituiscono un pericolo non solo per le minoranze ma per l'intero sistema dei diritti e delle garanzia, posto a tutela della collettività e proprio perché si mette in discussione un fondamento essenziale dello stato di diritto: quello che recita, come già si è detto, che la responsabilità penale è personale. Si puniscano, allora, i responsabili di quella folle corsa nella periferia romana, usando la stessa severità con la quale verrà giudicato quel manager di Vedano al Lambro che, esattamente due mesi fa, alla guida della sua Audi Q5 travolse un ragazzo quindicenne e sua madre. Gli si chieda conto del suo reato, ma non si criminalizzi l'intera popolazione di Vedano al Lambro.
(scritto con Liana Vita)
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