martedì 12 maggio 2015

Un articolo straordinariamente lucido di Sabino Cassese apparso oggi sul Corriere della Sera.


Pensioni, le strade possibili 
della Corte costituzionale

di Sabino Cassese 

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(Fotolia)
(Fotolia)
La sentenza della Corte costituzionale sulla rivalutazione monetaria delle pensioni sta suscitando molte critiche. La difendono solo i sindacati (ma questi fanno il loro mestiere, essendo ormai associazioni di pensionati) e le parti politiche che sperano in una buccia di banana per il governo. 
Mi paiono fuori centro le critiche di sconfinamento della Corte, con conseguente svuotamento dei poteri del Parlamento. Il compito della Corte è, infatti, proprio quello di assicurare che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullandole quando non la rispettano. Gli autori di questa critica vorrebbero fare a meno del garante della Costituzione, facendo così un salto indietro di duecento anni nella storia del costituzionalismo. 
Più ragionevoli le critiche al modo in cui ha proceduto la Corte in questo caso. La decisione presa ha implicazioni molto gravi per il bilancio dello Stato. La Corte, in un passato abbastanza lontano, si era dotata di uffici che valutavano le conseguenze finanziarie delle sue decisioni. Riteneva, quindi, di dover svolgere il suo ruolo di tutore della Costituzione bilanciando la tutela dei diritti con quella dell’equilibrio finanziario, da cui anche discendono diritti. In passato, più volte ha atteso e rinviato, aiutando contemporaneamente Parlamenti e governi a definire e tutelare i diritti dei cittadini, ma senza provocare buchi nel bilancio. Solo due mesi fa, la Corte ha adottato una importante sentenza con effetti solo per il futuro, perché altrimenti «si determinerebbe una grave violazione dell’equilibrio di bilancio ai sensi dell’art. 81 della Costituzione». 
U n bilanciamento diritti- costi è necessario, in particolare, quando vi sono diritti a prestazioni che - come ha osservato Mario Monti - non sono più sostenibili (correndo, in più, il pericolo di una messa in mora da parte della Commissione europea). E quando - come in questo caso - i costi di una sentenza debbono necessariamente essere compensati dalla riduzione di altri diritti sociali; ad esempio, limitando le prestazioni in materia di istruzione o sanitaria. La Corte non era obbligata a scegliere tra due sole soluzioni. Aveva molte alternative. Avrebbe potuto ripetere il monito (la messa in mora che la Corte fa quando non vuole produrre gli effetti immediati e traumatici che derivano da un annullamento), già fatto in precedenza in materia di pensioni, come è accaduto negli ultimi anni in materia elettorale. 
Avrebbe potuto fare una sentenza chiamata, nel gergo, additiva di principio, cioè stabilendo il principio della rivalutazione anche per le pensioni di livello pari a tre volte la minima, ma lasciando a governo e a Parlamento il compito di scegliere come provvedere. Così ha fatto molte altre volte. Avrebbe potuto agganciarsi ad altre norme che stabiliscono soglie e scaglioni diversi, graduando gli effetti concreti della propria pronuncia. Anche questo tipo di decisioni manipolative ha molti precedenti. Avrebbe potuto, infine, non comportarsi come Giove pluvio, facendo trovare gli organi di spesa dinanzi al fatto compiuto (uno dei più acuti giudici costituzionali americani ha scritto un libro per dimostrare che la forza delle corti supreme sta nella loro capacità di collaborare con gli altri poteri dello Stato).

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