sabato 16 maggio 2015

Come ribadisce il giornalista della Stampa Cesare Martinetti questo é il leader di un partito che spera di realizzare in Italia la democrazia Russa e quella della Corea del Nord. I paesi più democratici del mondo.

Non regaliamo a Salvini il ruolo di vittima

LAPRESSE

14/05/2015
È difficile esprimere solidarietà a uno che balla sui morti del Canale di Sicilia per la sua miserabile bottega politica. E dunque non è di questo che stiamo parlando. 

Ma che Matteo Salvini venga aggredito e non possa parlare in una piazza italiana, com’è successo l’altra sera a Marsala, non va bene. Non è il caso di citare per l’ennesima volta il mite Voltaire («combatto le tue idee ma sono pronto a battermi fino alla morte perché tu le possa esprimere») anche perché nel caso di Salvini spesso non si tratta di idee, ma di studiate provocazioni; altre volte sono proposte politiche, eccentriche ed estreme fin che si vuole, e come tali devono avere piena cittadinanza come quelle di tutti.  

Ma nemmeno il più radicale dei liberali si alza a dire «je suis Matteo» come è successo con Charlie Hebdo (le riserve e i distinguo sono usciti fuori dopo) nonostante quel settimanale fosse spesso volgare e offensivo. Ma che a Salvini sia impedito di parlare e sia ridotto a bersaglio per il lancio di uova, non fa ridere e segnala semmai le due facce di una stessa malattia: l’intolleranza. Si potrà dire che Salvini non fa altro che raccogliere quello che semina, con una scelta di marketing ossessiva e non certo innocente. Si potrà dire che chi di populismo ferisce non si lamenti se dal populismo viene attaccato. Ci sono insomma angoli diversi attraverso i quali non giustificare ma comprendere la contestazione a Salvini. Eppure questa tardiva riedizione di opposti estremismi ci racconta un’altra manifestazione della malattia italiana: il non riconoscimento dell’avversario politico e la pulsione a distruggerlo.  

Salvini rappresenta il nostro Paese al Parlamento europeo ed è leader di un partito che governa Lombardia e Veneto cioè due delle regioni più ricche d’Europa. Il suo partito ha da tempo perso l’aura dell’incorruttibilità (dalle mutande verdi di Cota, ai diamanti di Belsito, alla laurea falsa di Bossi jr) eppure in una delle tante distorsioni italiane rappresenta una quota non marginale di mondo produttivo nordista al quale evidentemente non dispiace l’impeto semplicistico e rozzo del capo. Non stiamo a rifare la sociologia del consenso leghista che dovrebbe però indurre ad osservare ed ascoltare Salvini impegnato in questa avventura contro natura di far diventare nazionale un partito antinazionale, cresciuto nel disprezzo del tricolore e chiedendo i voti ai meridionali «fanulloni e parassiti», come hanno recitato per vent’anni la giaculatorie della Lega a beneficio dei padroncini del Nord. 

Ma perché regalare a Salvini il ruolo della vittima e del perseguitato? Perché nobilitare uno che ha sbeffeggiato il Presidente di quella Repubblica che gli ha regalato una dimensione pubblica al Parlamento europeo contribuendo alla fama di italiani grotteschi e inaffidabili? Jean-Marie Le Pen, feroce con i presidenti in patria, non ha mai attaccato il suo Paese a Strasburgo e solo qualche giorno fa ha detto di non augurarsi che la figlia Marine (grande alleata di Salvini) diventi Presidente: «Sarebbe scandaloso che una donna con quei principi morali dovesse governare il nostro Stato».  

Il razzismo primario di Salvini non ha niente a che vedere con la comprensibile domanda di sicurezza degli italiani. Non regaliamogli ogni giorno un titolo sui giornali. Dopo un breve soggiorno in Corea del Nord è tornato dicendo che laggiù c’è «uno splendido senso di comunità», i bambini giocano per strada, tutto l’insieme gli ha ricordato la Svizzera e il dittatore Kim Jong-un gli è parso un moderato. Piazza dopo piazza una risata, prima o poi, lo sommergerà. E sarà meglio delle uova. 

Twitter @cesmartinetti  

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