mercoledì 13 maggio 2015

Riceviamo e pubblichiamo

«Vogliamo cambiare l’Italia? Cambiamo l’università»

Alessandro Rimassa a #Lkopentalk: «Tutta l’innovazione in Italia è indipendente dagli atenei». Mirko Nesurini: «Ma l’eccellenza è solo un mito»
(Sean Gallup/Getty Images)

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L’università non funziona, non ha connessione con il mondo del lavoro, non si sa adeguare al cambiamento e da quindici anni è dentro una riforma, quella del 3+2, che «è il peggior sistema che si possa avere». Non usa mezzi termini Alessandro Rimassa, direttore della “Tag Innovation School” di Talent Garden. Martedì 12 maggio ha parlato all’open talk presso la redazione de Linkiesta, assieme a Mirko Nesurini, ceo di Gwh Brand Consultancy & The Work Style Company, e con la moderazione di Alessandro Rosina, docente alla Cattolica di Milano e presidente di Italents, che realizza in collaborazione con Linkiesta il canale Expat del sito.
«Expo, Export e Expat sono le tre cose che funzionano e che ci aprono al mondo«, dice Rosina. Però, aggiunge «esistono molte cose che non funzionano, in primis il sistema formativo, visto che siamo diventato il principale produttore al mondo di Neet, giovani che né studiano, né lavorano». La colpa è del sistema formativo? Secondo Rimassa, si. E infatti il suo intervento parte dalle manifestazioni contro la “Buona Scuola” («si parla solo di organizzazione, precariato, potere dei presidi, mai di come cambiare la scuola dal punto di vista dei contenuti») e arriva ben presto all’università. «Per quattro anni ho diretto prima il centro ricerche e poi la scuola di comunicazione e management dell’Istituto europeo di design, che è un’istituzione para-privata, per poi passare a Talent Garden. Potrei ignorare quello che succede nel pubblico, ma credo in un sistema basato sul meritoe non sono per niente contento del sistema che vige in Italia».
Alessandro Rimassa: «Quando ci sono storie di successo di aziende, non c’è mai una connessione con l’università» 
Il primo problema, spiega, è che «quando ci sono storie di successo di aziende, non c’è mai una connessione con l’università. Per un libro che uscirà in estate, racconterò 85 storie in 16 settore industriali, dopo averne incontrate un migliaio. La cosa pazzesca è che non sono mai legate alle università di provenienza, è solo frutto della capacità degli italiani di fare e innovare in modo autonomo. È una distonia, il mio sogno è che si costruiscano nuove imprese, anche micro-imprese, con una corrispondenza precisa tra impresa e lavoro». Il mondo sotterraneo di imprese, che vanno avanti da sole, infatti, «ha bisogno di energie e investimenti per uscire».
Quello di cui si dovrebbe davvero discutere non è solo il lavoro degli insegnanti, ma la scarsità della nostra formazione

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C’è poi «la colpa di un sistema che non è in grado di raccontare l’evoluzione del mondo del lavoro - aggiunge - . Siamo ancora dentro il peggiore sistema universitario che si potesse avere. Il 3+2 è uno scempio. Nel biennio si replica a grandi linee il triennio e si tengono i ragazzi nelle stesse università, quando la cosa migliore sarebbe fare il triennio in Italia e poi il master di un anno all’estero». «È un sistema che non si sa adeguare al cambiamento - attacca -, anche perché gli atenei non hanno applicato adeguatamente la riforma: nelle università pubbliche non sono mai stati creati dei centri di placement efficienti. Nel passaggio dal sistema a 4/5 anni precedente al 3+2 abbiamo svuotato di profondità culturale le università e non le abbiamo connesse con il lavoro. Siamo in mezzo, ma lo siamo da troppo tempo, dalla fine degli anni Novanta». 
Rimassa: «Siamo ancora dentro il peggiore sistema universitario che si potesse avere. Il 3+2 è uno scempio»
Inoltre, affonda, «il sistema 3+2 è stata una dichiarazione universale del diritto di laurea, che è il vulnus culturale di questo Paese. Il messaggio è che tutti devono laurearsi, quando c’erano tanti altri lavori da fare. Mentre ci sono istituti come gli Its (istituti tecnici superiori, ndr), che vanno a formare operai altamente specializzati, funzionano benissimo ma non sono conosciuti né trattati dalla stampa». 
 
 
Il terzo punto è un richiamo alla politica, perché «faccia un passo indietro». «La politica deve lavorare per sottrazione, per togliere gli ostacoli. Il decreto del Fare di Enrico Letta sarebbe dovuto essere il decreto del Lasciar Fare». «Talent Garden (spazi di coworking, che garantiscono formazione e contatti con le aziende, ndr) - aggiunge - sta aprendo in vari Paesi dell’Europa dell’Est. Alcuni Paesi che sembrano più indietro di noi, come l’Albania, la Lettonia e l’Estonia, corrono, innovano, proprio perché lasciano fare».  
Rimassa: «Alcuni Paesi che sembrano più indietro di noi, come l’Albania, la Lettonia e l’Estonia, corrono, innovano, proprio perché lasciano fare»
Rimassa, classe 1975, è noto anche per aver scritto con Antonio Incorvaia, il romanzo “Generazione Mille Euro”, da cui è stato tratto anche un film. È quindi tutt’altro che insensibile alla tematica del lavoro giovanile. Ma invita gli stessi ragazzi a “investire” nella formazione, anche quando si lavora e anche con propri soldi, perché «ci sono tantissimi lavori che tra cinque anni non esisteranno più, anche nel mondo digitale. Bisogna continuare a esaminare il mercato e capire cosa l’innovazione tecnologica va a distruggere e creare di nuovo. Come spiegava un report del World Economic Forum dello scorso anno, la prospettiva è quella di inserire continuamente la formazione nella vita lavorativa, o in modo orizzontale o con pause ogni 3-4 anni. Noi in Italia questo lo facciamo pochissimo».
 

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Mirko Nesurini: «L’Italia gioca troppo la partita sulle eccellenze. Si vince con una buona media, non con pochi che hanno l’X Factor»
Se questi sono mali che gli italiani conoscono, ci pensa lo svizzero - ticinese - Mirko Nesurini a evidenziarne uno meno noto: la pericolosa narrazione dell’eccellenza. «Sono da sempre un espatriato, dalla Svizzera - racconta -. Venti anni fa dopo gli studi mi sono presentato come lo svizzero tipico. Siamo stabili, magari non brillanti ma abbiamo la reputazione di fare un compito bene. Al contrario gli italiani venivano scelti quando c’era bisogno di una persona brillante. Ora tutto questo è saltato, perché l’expatriat come ve l’ho raccontato non esiste più: oggi la selezione avviene sulla base del curriculum. E le aziende vogliono più sicurezze: un cv estremamente solido e una perfetta conoscenza delle lingue». Per questo, spiega, «tutto quello che avviene prima dell’esperienza professionale è importante: dove si studia, risultati, e soprattutto la coerenza del percorso di studi. Oggi gli uffici delle risorse umane di moltissime aziende preferiscono una buona media sulle eccellenze». Da qui la critica all’Italia, che «gioca troppo la partita sulle eccellenze. Raccontare ai ragazzi che si vince perché si è eccellente è sbagliato, perché non è vero. Fuori vinci non se hai qualche persona con l’X Factor, ma se hai una media stabile». 
Nesurini: «Ho lavorato per Ogilvy e il presidente del Kazakhstan Nazarbayev. Il loro imprinting iniziale è rimasto, perché quello che conta è la partenza»
Per Nesurini non è necessario tenere sempre lo stesso lavoro, ma «quello che conta è la partenza. Nei miei lavori ho lavorato per la società di marketing Ogilvy, il cui fondatore era un cuoco: il suo imprinting è rimasto. Ho poi curato per qualche anno la comunicazione del presidente del Kazakhstan Nursultan Nazarbayev. Era un grigio funzionario locale, ma diventato personaggio. Il punto di partenza fa ranking in tutta la carriera. Se sei partito con una formazione solida, te li porti sempre dietro». 
 

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