Una strategia per la guerra tra generazioni
Blog post del 11/05/2015
È “ragionevole” un Paese che continua a spendere – nonostante vent’anni di riforme – cinque volte di più in pensioni di quanto non investa nello sviluppo del capitale umano che è indispensabile oggi per poter anche solo immaginare di avere un futuro? È “equo” uno Stato che interviene per tutelare i diritti di chi è uscito dal mondo del lavoro e di chi ha perso un’occupazione o un familiare che contribuiva al reddito familiare, e che non ha alcun sistema di protezione per chi nel mondo del lavoro deve ancora entrare o ne vive ai margini del precariato? E, soprattutto, esiste una strategia per poter sfuggire alla sindrome della coperta troppo corta, della guerra tra poveri e tra generazioni che rischia di mandare in frantumi una società che continua ad essere, nonostante qualche breve illusione, sull’orlo di una crisi di nervi?
La sentenza della Corte Costituzionale, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale mercoledì scorso, è deflagrata come una bomba sugli equilibri di conti pubblici che pensavamo di aver consolidato, ma, ancor di più, essa sembra colpire un patto tra generazioni fragilissimo. Anzi, ad essere messo in discussione è, secondo molti, lo stesso ruolo della Corte edil rapporto con un potere politico al quale deve pur spettare la possibilità di decidere come ridistribuire le risorse – scarse – tra diversi possibili utilizzi. Nonché la sua composizione che tradirebbe un conflitto di interesse nella guerra tra generazioni nella quale saremmo intrappolati.
Eppure, come ha notato Romano Prodi da queste colonne ieri, l’aspetto sul quale la Consulta si è concentrata è la “ragionevolezza”, l’ “equità” di una singola misura (l’articolo della Legge Fornero che alla vigilia del Natale di tre anni fa regalò ai pensionati italiani il congelamento degli assegni superiori a tre volte quello minimo) che, secondo la Corte, potrebbe compromettere “l’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite”. In nessuna parte di questa sentenza si parla – ed è un aspetto di fondamentale importanza che nessuno sembra aver notato – di “diritti acquisiti”, il fantasma che viene spesso agitato come una barriera invalicabile che neppure ragioni di equilibrio finanziario o di riequilibrio dei rapporti tra generazioni potrebbe violare.
Allora, paradossalmente, potrebbe avere ragione la Corte sullo specifico; ma potrebbe, contemporaneamente, avere ragione, allo stesso tempo, il Paese che quella Corte serve, se il Governo e la società italiana decidessero di immaginare un ridisegno complessivo del sistema di welfare che, finora, nessuna riforma (compresa quella della Fornero) è riuscito ad esprimere. Potrebbe, in maniera analoga, essere legittimo il tentativo del ministro dell’economia Padoan di attenuare le conseguenze di una decisione che ha il difetto di essere immediatamente valida e retroattiva; ma sarebbe ancora meglio mettere subito in agenda un intervento complessivo di ripensamento della spesa per prestazioni sociali, che comprenda anche la questione di un sussidio universale e quella più ampia della modifica della composizione della spesa pubblica italianaper aumentare quel tasso di crescita potenziale che langue.
Nessun Paese spende quanto l’Italia in pensioni di vecchiaia (e per superstiti): il 17,4% del PIL secondo l’ultimo rapporto INPS e cioè 260 miliardi di euro. Si tratta di una cifracinque volte più alta – e ciò appare davvero poco morale (se per moralità intendiamo l’insieme di valori che assicurano il succedersi dei cicli naturali e delle generazioni)- dei 51 miliardi che investiamo in educazione;dagli asili (indispensabili per non scoraggiare la partecipazione al mondo del lavoro di un genitore con figli) alle università, mettendoci dentro anche la spesa in ricerca. La situazione negli ultimi vent’anni – mentre si parlava e si facevano riforme – è, peraltro, molto peggiorata: siamo passati dai primi agli ultimi posti tra i Paesi OECD per spesa in educazione; da posizioni intermedie alla prima incontrastata per quella previdenziale e l’ultimo rapporto OECD vede miglioramenti molto più lenti che negli altri Paesi.
È vero che l’Italia sta invecchiando. Gli italiani con più di 65 anni, però, sono meno di tredici milioni, mentre i pensionati sono, sempre secondo i dati INPS, diciotto milioni (per venticinque milioni di posizioni perché sono molti i pensionati che percepiscono più di un assegno):ci sono, dunque, cinque milioni di pensionati in età di lavoro. I tedeschi hanno un rapporto tra vecchi e bambini ancora superiore, spendono molto meno della propria ricchezza nazionale in pensioni (11,4%), ma meno numerosi in valore assoluto, nonostante il fatto che la Germania sia più grande dell’Italia, sono gli anziani tedeschi che risultano “indigenti”. Contemporaneamente, come fa notare la Commissione Europea, nessun altro Paese è sprovvisto come l’Italia di una qualsiasi forma di sussidio universale a chiunque si trovi in condizione di non lavoro.
Bisognerebbe includere di più e costruire gli ammortizzatori che consentono di adattarsi alle discontinuità tecnologiche senza scomparire. Estendere a tutti a prescindere dall’età o dalla precedente condizione lavorativa un supporto che assomigli più che ad una rete protettiva, ad uno di quei materassi gonfiabili che consentono a chi cade di rimbalzare nuovamente nel mercato del lavoro (e ciò richiederà anche una revisione drastica della rete dei centri per l’impiego).Finanziando la costruzione di pacchetti di formazione e di sostegno al reddito con una drastica riduzione di tante iniquità che risulterebbero irragionevoli alla stessa Corte costituzionale. Iniquità di trattamento sia tra categorie di lavoratori diversi (non si capisce, ad esempio, perché ai militari non siano state applicate le previsioni dell’ultima legge che ha eliminato le pensioni di anzianità); sia tra quelli che lavorano e quelli che non lo fanno più e francamente risulta difficile capire come mai sia considerato “diritto acquisito” intoccabile quella di chi in pensione gode di assegni superiori ai propri contributi; laddove i “diritti” ugualmente acquisiti di chi era ancora al lavoro sono stati ridimensionati più volte.
Ha ragione, in linea di principio, il leader del movimento cinque stelle Grillo (che, però fa male i conti sottovalutando il costo dell’operazione). Aveva ancor più ragione l'exministro del lavoro Giovannini che tentò di introdurre sperimentazioni di reddito minimo finanziandole con i tagli delle pensioni d’oro. Tuttavia, ciò che ancora non si vede è una strategia di ristrutturazione della spesa per la protezione sociale che si ponga l’obiettivo di abbattere drasticamente l’esclusione. Nonché una ricomposizione della spesa pubblica che sposti risorse dalla cura dei sintomi del declino, all’investimento in capitale umano e, dunque, in futuro.
Una strategia ambiziosa che non può essere ridotta a qualche pur necessaria sforbiciata dei privilegi della casta: in realtà, si tratta di conquistare un consenso diverso convincendo anche i più anziani che al loro “sacrificio” corrisponde un investimento nei loro nipoti e, in definitiva, la sostenibilità di una costruzione che altrimenti ci crollerebbe addosso. Attraverso la riallocazione delle risorse,non facciamo solo finanziarie: poniamo i presupposti per un progetto di cambiamento che non può che riguardare i comportamenti di tutti. Ciò non potrà non avere riflessi sulle stesse modalità di coinvolgimento nei processi decisionali di istituzioni, come la Corte, che vigliano sulla realizzazione di principi che da tempo risultano completamente disattesi.
Articolo pubblicato su Il Messaggero ed Il Gazzettino dell'11 Maggio
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