Partiamo dall’inizio: perché si dice che l’Italia deve tagliare il suo debito pubblico?
Perché il 20 Aprile del 2012, con una legge Costituzionale -approvata senza alcun voto contrario e con soli dieci astenuti - èstato introdotto nella nostra Carta, all’articolo 81, il «principio dell’equilibrio strutturale delle entrate e delle spese del bilancio». In parole povere, il famoso pareggio di bilancio che l’Italia ha promesso di raggiungere entro la fine del 2015. Attenzione, però: «strutturale» vuol dire che alle entrate e uscite effettive si applica una correzione per tener conto di quanto abbia influito la situazione economica contingente, e si considera come sarebbe andata se l’economia non fosse stata sotto stress per la crisi, cioè in situazione «normale». Tutto abbastanza aleatorio, insomma, ma ci torniamo dopo.
Perché è stato inserito il pareggio di bilancio in Costituzione?
Si potrebbe rispondere con un luogo comune: «Perché ce l’ha chiesto l’Europa». Non è così, in realtà, perlomeno non formalmente. Certo, il pareggio di bilancio è uno dei pezzi della cosiddetta «Nuova governance economica dell’Unione Europea»,figlia della crisi economica del 2008 e soprattutto della tempesta perfetta sui debiti sovrani della seconda metà del 2011, che mira ad armonizzare i bilanci degli stati membri. Il cardine di questa politica è il celeberrimo «fiscal compact», firmato in occasione del Consiglio europeo dell’1 e 2 marzo 2012 da tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione di Regno Unito e Repubblica ceca e che li impegna, tra le altre cose, a portare il debito pubblico al 60% del Pil, riducendo la parte eccedente di un ventesimo l’anno. Il pareggio di bilancio, invece, sta nel cosiddetto pacchetto Europlus, una serie di misure non vincolanti (avete letto bene: non vincolanti), esterne ai trattati comunitari. In altre parole, per fare le cose per bene e per essere credibili, ce lo siamo chiesto da soli.
Perché allora oggi non vogliamo più rispettare questo impegno che ci siamo assunti?
Perché nel frattempo ci siamo presi anche altri impegni, come quello di pagare i debiti della Pubblica Amministrazione ai fornitori. Così, lo scorso 16 Aprile, il Ministro dell’Economia Piercarlo Padoan ha inviato una lettera a Siim Kallas, Vice Presidente della Commissione Europea, per comunicargli che, a causa di«circostanze eccezionali» per il 2015 non ce l’avremmo fatta. Il ritardo ipotizzato da Padoan è di un solo anno, in realtà: il Ministro ipotizza infatti una discesa del rapporto tra deficit e Pil dello 0,2% nel 2014, dello 0,5 % nel 2015 e dello 0,7% nel 2016, in cui la convergenza strutturale tra entrate e uscite sarebbe stata completa. La Commissione, tuttavia, ha rispedito al mittente la nostra richiesta di dilazione.
Quindi, cosa succederà?
Succederà che a ottobre ci aspetta una legge di bilancio piuttosto severa, pare: in estrema sintesi, ci sono da trovare 25 miliardi di Euro per coprire tutti gli impegni presi dal governo, come il famoso bonus Irpef (gli 80 Euro, per intenderci). Questo nonostante il Premier Renzi, fino a qualche settimana fa, escludeva manovre correttive e anzi assicurava che a ottobre avrebbe esteso il suo decreto Irpef a incapienti, partite iva e pensionati. Difficile riesca a porre fede a queste sue promesse.
Nel frattempo, Renzi è tornato dal vertice di Bruxelles affermando di aver conseguito un’ importante vittoria: a cosa si riferisce?
Dal vertice di Bruxelles della scorsa settimana, l’Italia in effetti qualcosa ha portato a casa: si tratta di una clausola del documento conclusivo in cui si parla di «best use of flexibility», o, in italiano, di «miglior uso possibile della flessibilità» rispetto agli impegni presi, per conciliare crescita e rigore. Tradotto in pratica, le riforme promesse da Renzi hanno un costo: il Premier vuole che il costo di quelle riforme non rientri né nell’impegno a rispettare l’impegno che il deficit non sfori il Pil per più del 3% né quello del pareggio di bilancio strutturale. O ancora, che non vi rientri nemmeno la parte italiana del cofinanziamento dei fondi strutturali europei. In altre parole, le riforme del Governo dovrebbero essere al riparo degli impegni che dovremmo comunque essere tenuti a rispettare.
Gli investimenti, invece? Rientrano nella «miglior flessibilità possibile»?
Ci sarebbe questa clausola per gli investimenti, che li fa rientrare nelle spese che non rientrano negli accordi di bilancio. Tuttavia, già nel 2013 Letta ci aveva provato, ma la Commissione Europea respinse al mittente la sua richiesta. Secondo il ministro Delrio – eccoci arrivati alla sua intervista di oggi sul Corriere della Sera - «il no dell’anno scorso era motivato con una curva di discesa del debito pubblico ancora troppo lenta». L’intervistatore, a questo punto, chiede al Sottosegretario perché ora dovrebbe esserci concessa, visto che il debito pubblico, nell’ultimo anno, invece che scendere lentamente è cresciuto. Ed è a questo punto che Delrio riparla di union eurobond per finanziare gli investimenti.
Per l’appunto: cosa sono gli union eurobond?
Quella degli union euro bond è una vecchia idea di Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio a sua volta sposata dall’allora Ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Idea semplice: oggi sono i singoli Stati a sostenere il rischio dei propri titoli di debito. Così, ad esempio, i Btp hanno rendimenti molto superiori ai Bund tedeschi perché sono più rischiosi. Se invece si emettesse un’obbligazione europea – l’Eurobond, per l’appunto - essa avrebbe un rendimento e una rischiosità che sarebbe la media tra quella dei paesi più solidi, come la Germania, e quella dei paesi che lo sono di meno, come l’Italia. Ognuno di questi paesi, garantirebbe la propria quota parte di questo nuovo debito con parte del proprio patrimonio: per Prodi e Quadrio Curzio, le riserve auree detenute dalle banche centrali; per Delrio, gli immobili dello Stato. I fautori di questa proposta propongono che le risorse raccolte con gli Eurobond debbano tassativamente essere spese nell’investimento in opere pubbliche in una sorta di «new deal» del vecchio Continente.
Chi è favorevole agli euro bond?
Favorevoli, ovviamente, sono i paesi dell’Europa meridionale e quelli con debiti pubblici molto alti, Italia in primis. I motivi sono intuibili: potrebbero prendere in prestito denaro a costi molto più bassi e, attraverso gli investimenti in lavori pubblici, dar fiato a imprese, lavoratori, consumatori. Secondo Delrio, in questo modo si metterebbero in circolo nell’economia circa 10 miliardi di Euro e si abbatterebbe il debito pubblico italiano di circa il 25/30% nel giro di pochi anni. Quel che Delrio non dice è che si creerebbe, in parallelo un debito pubblico europeo, che avrebbe tuttavia il pregio di essere molto meno attaccabile dalla speculazione internazionale.
Chi è contrario, invece?
Contrari sono i paesi dell’Europa centro-settentrionale, quelli virtuosi, Germania in primis. Anche qui non è difficile comprendere le ragioni di tale contrarietà: questi paesi pagherebbero il denaro più caro di quanto lo pagano ora. Non solo: dalla Merkel a Olli Rehn, il timore vero è che con gli eurobond, paesi come l’Italia non avrebbero più alcun incentivo a fare le riforme necessarie alla convergenza verso il pareggio di bilancio strutturale e alla progressiva riduzione del debito pubblico. Valga per tutti, l’epitaffioagli eurobond di Angela Merkel in persona: ««Non vedo la possibilità di mutualizzare i debiti finché vivrò». Più chiara di così.
Che speranze ci sono, quindi, che la proposta di Delrio abbia seguito?
Assumendo che la Merkel goda di un buono stato di salute, la percentuale tende allo zero. Delrio, e Renzi insieme a lui, sperano ovviamente che sempre più Paesi li chiedano con forza, visto che i debiti pubblici in questi anni sono aumentati sensibilmente anche e soprattutto nei paesi storicamente «virtuosi» e per ognuno di essi il traguardo del 60% debito/Pil fissato dal fiscal compact si è inevitabilmente allontanato. Se a questo aggiungiamo una crescita economica che ancora latita e lo spettro della deflazione sempre più in agguato, ecco che la prospettiva degli eurobond, oggi così lontana, potrebbe farsi improvvisamente concreta.
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