Merkel e il ritorno della Questione tedesca
La Germania non ha fremito egemonico, ma si chiude in sé stessa senza pensare agli interessi europei
E se fosse debole perché sola, troppo sola? L’ipotesi può apparire paradossale. Ma come debole? La Germania non è forse uscita vincitrice dalla crisi nella zona euro? E, pur perdendo voti, il duopolio che da sempre la governa, cioè democristiani e socialdemocratici, ha retto bene all’onda euroscettica e populista (lo stesso partito anti-euro AfD, è composto da borghesi conservatori non da sanculotti o ceti medi sovversivi). Non solo. Berlino ha imposto il proprio candidato, il fido Jean-Claude Juncker sfidando l’ira (un po’ mesta e rassegnata per la verità) dei conservatori britannici. E adesso cerca di piazzare l’altro fido, il finlandese Jyrki Kaitanen agli affari economici e monetari. Dunque, che cosa poteva ottenere di più Frau Merkel?
Tutto vero, eppure la reazione al discorso di Matteo Renzi davanti al parlamento europeo è stata eccessiva, isterica persino e inappropriata da parte di Jens Weidmann (il capo dellaBundesbank che attacca il primo ministro di un paese alleato e s’intromette nelle scelte politiche di uno stato sovrano, non s’era mai visto; è peggio persino delle lettere della Bce nell’agosto 2011). Arroganza a parte, non si spiega forse con un timore che si fa strada nell’élite tedesca ed evoca spettri mai del tutto esorcizzati: la paura, cioè, di restare isolati, al centro di una Europa che va da tutt’altra parte?
Forse l’austerità era inevitabile; forse il rigore nei conti pubblici è il più saggio comportamento di uno stato concepito come un buon padre di famiglia; forse (e qui i dubbi crescono ancora di più) una bilancia con l’estero in forte attivo è sintomo di potenza del sistema; forse la scuola monetaria germanica è nel giusto e la banca centrale deve solo badare all’inflazione; forse l’economia sociale di mercato è la mediazione perfetta tra capitalismo individualistico ed equità sociale; forse le auto tedesche sono le migliori del mondo; forse la stabilità è superiore al dinamismo, la conservazione al cambiamento e nell’ordoliberalismo l’ordine prevale sulla libertà. L’elenco delle tetragone convinzioni teutoniche può andare avanti all’infinito, metteteci quel che più vi piace. Ammettiamo, dunque, che i tedeschi abbiano ragione, il fatto è che gli altri europei ne hanno le tasche piene. Non reggono tanta virtù e tanta superiorità.
Adesso, poi, arriva la rottura dell’asse Berlino-Parigi. Il motore franco-tedesco come veniva chiamato con grande compiacimento, è fuso; ciò mette in drammatica evidenza questa solitudine e la trasforma in debolezza. Il Reno è diventato più largo, proprio mentre oltre l’Elba si levano bagliori inquietanti.
Volendo essere pignoli, dovremmo sottolineare che l’economia non va poi così bene nemmeno in Germania. La crescita stenta, l’indice di fiducia degli operatori è fiacco, l’industria manifatturiera zoppica. La Bundesbank è ottimista per la seconda parte dell’anno. Certo, nessuna tempesta oggi è prevedibile, ma proprio per questo bisogna stare attenti, come la storia ci ha insegnato. Perché gli squilibri di fondo restano e il principale squilibrio è proprio quello tra la Germania e tutti gli altri.
Anche alcuni dei satelliti economici di Berlino attraversano nuove difficoltà o, nel caso dell’Olanda, non hanno ancora messo in ordine non i conti pubblici, ma quelli privati colpiti dallo scoppio della bolla immobiliare. Fuori dall’euro, anche la Svezia, che aveva reagito bene alla recessione, adesso s’è fermata.
La classe dirigente tedesca (politici e banchieri in testa) ha messo sotto il tappeto parecchia polvere. Si pensi alle banche locali o al caso paradossale della Deutsche Bank vera bomba (atomica) a orologeria imbottita com’è di titoli marci di tutto il mondo (subprimecompresi). C’è poi un settore dei servizi ancora protetto e non liberalizzato, una resistenza a completare il mercato unico europeo, una forte spinta ad alzare il ponte levatoio e difendere il Modell Deutschland dalle “intromissioni” americane.
Intanto, cadono dal cielo “le incognite geopolitiche” come le chiama la Bundesbank, in altre parole i legami troppo stretti con Mosca. La Germania è troppo dipendente dal gas russo e ha trascinato su questa strada anche paesi come l’Italia o la Spagna, per non parlare dell’intera Europa centro-orientale.
La politica energetica è un esempio di quanto possa essere catastrofico il dirigismo tedesco. La virata verso le fonti rinnovabili è stata eccessiva e distorta, sovvenzionata dallo stato, come del resto è avvenuto tra i suoi imitatori, soprattutto Italia e Spagna. Acqua, vento e sole sono fonti preziose da utilizzare al massimo per ridurre il peso degli idrocarburi, ma con criteri di mercato, altrimenti si creano distorsioni che ricadono sulla gente comune e sui più poveri. L’abbandono del nucleare da questo punto di vista è un’altra scelta miope. E non si può dare la colpa ai verdi: i due maggiori partiti condividono le cause e le conseguenze di questa distorsione energetica diventata crisi aperta con il conflitto in Ucraina e il neoimperialismo di Putin.
Ma più grave ancora per le sue conseguenze future è l’isolamento politico. La commedia del tête-à-tête con la Francia è finita in dramma. La Merkel e Sarkozy sembravano due compagni di scuola con tanto di ammiccamenti e complici sorrisetti, ma hanno provocato un caos finanziario e politico per la loro testarda resistenza ad affrontare la crisi greca nei tempi e nei modi giusti, cioè fin dal 2010 con prestiti a basso interesse e a lungo termine che avrebbero evitato anni di bufera, mettendo in pericolo l’euro e i paesi che lo adottano. Sarkozy è finito nella polvere giudiziaria, lo ha sostituito quella maionese di François Hollande strapazzata dal ciclone lepenista. E Frau Angela ha perso un interlocutore credibile oltre Reno.
All’isolamento della Germania in Europa s’aggiunge quello della Merkel nel proprio paese. La Cancelliera ha vinto e resta molto popolare, ma la coalizione democristiana è costretta a una alleanza con la Spd che sta scomoda a entrambi i partner. La Cdu-Csu ha subito l’introduzione del salario minimo per legge che aumenta le retribuzioni a una buona fetta dei lavoratori tedeschi (quasi un terzo). Ciò è una buona notizia anche per gli italiani: se cresce il potere d’acquisto in Germania ne trae vantaggio anche il made in Italy. Ma la scelta aumenta i mal di pancia degli industriali tedeschi che guardano non alla zona euro, bensì alla Cina e all’America.
C’è una bella tabella elaborata dalla Bundesbank che mostra quali sono i problemi principali nelle economie della zona euro: per l’Italia il costo del lavoro e l’accesso ai finanziamenti, per la Germania la domanda e la mancanza di personale specializzato.
Dunque, potremmo dire che entrambi i paesi hanno bisogno di riforme strutturali, anche se diverse: ridurre il cuneo fiscale e aumentare il capitale (proprio o di prestito) per le imprese italiane; per quelle tedesche cambiare la scuola, importare manodopera di alto livello e smetterla con il neomercantilismo che ha privilegiato le esportazioni fino al limite del dumping, con alti costi all’interno e bassi prezzi all’estero sovvenzionati da tassi d’interesse inferiori all’inflazione.
Insomma, i compiti a casa non mancano per nessuno. Soprattutto, è evidente che la Germania è riuscita a imporre la sua linea nell’affrontare la crisi dell’euro (sia pur temperata da una politica monetaria accondiscendente grazie all’abile mano di Mario Draghi), ma non è capace di condurre l’area euro fuori dalla Grande Recessione che si sta trasformando in Grande Stagnazione.
I tedeschi non vogliono, si dice, perché rifiutano di accollarsi gli oneri di una politica di rilancio per non importare inflazione, anche se è un timore ridicolo in un’era di deflazione strutturale (la rivoluzione dello shale gas, le nuove tecnologie, la concorrenza di paesi a basso salario ecc.). Adesso, non solo non vogliono, ma non ne sono capaci.
C’è una via d’uscita? Gli Stati Uniti e il Fondo monetario internazionale, da anni lanciano accorati e inascoltati moniti. Un attivo della bilancia dei pagamenti che sfiora il 7% del prodotto lordo è abnorme. Esistono ampi spazi per allentare le redini e aumentare la domanda interna importando beni dagli altri paesi, soprattutto quelli dell’eurozona, e aiutando così la ripresa. Manca una politica fiscale comune nell’Unione europea, però una politica economica cooperativa potrebbe rimpiazzarla e sarebbe la via maestra per esercitare la leadership.
Purtroppo, il dibattito culturale e politico dimostra che finora le élite tedesche non si sono poste il problema. Anzi, quando è stato sollevato, soprattutto dall’esterno, è stato respinto con sdegno. Ciascuno si gratti le proprie rogne, si continua a ripetere pavlovianamente, impartendo la solita lezioncina morale ai paesi del sud.
La Germania non ha nessun fremito egemonico, checché ne pensino i conservatori inglesi o i denigratori sparsi in tutta Europa, piuttosto si chiude in se stessa, presa dalla contemplazione della propria presunta virtù o, tra le anime più inquiete, dall’ansia del fariseo che grida sempre: qual è il mio dovere perché io lo possa compiere?
La conseguenza è che ogni paese cercherà di aggiustarsi alla bell’e meglio tenendo conto delle proprie priorità politiche e degli interessi forti da difendere. Fino alla prossima crisi. Perché se la moneta è stata salvata (per il momento e soprattutto grazie alla Bce) non si può certo dire altrettanto per l’Unione europea. Il seguito dell’euro-feuilleton alla prossima puntata.
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