giovedì 3 luglio 2014

Questo è il paese al quale dovevamo guardare secondo il grande economista Grillo. Speriamo solo che questi pazzi non vadano mai al governo.


Argentina, rischio default per pagare i fondi Usa

I nuovi bond non sono bastati. E gli hedge fund americani vogliono i soldi. In 30 giorni. A Baires il fallimento s'avvicina.

ECONOMIA
La clessidra è stata girata e la sabbia scende rapidamente. La Corte suprema americana ha dato al governo dell'Argentina 30 giorni di tempo per trovare un accordo con i grandi fondi di investimento Usa che non hanno accettato la ristrutturazione del debito avvenuta dopo il default del 2001 e reclamano oggi 1,33 miliardi di dollari di pagamenti.
SPETTRO NUOVA CRISI. Di fatto, ha riconosciuto uno degli avvocati dei creditori, «l'Argentina ha una pistola puntata contro».
Per una serie di effetti a cascata, il pagamento degli hedge fund (i fondi comuni di investimento) rischia di far avvitare il Paese in una nuova crisi finanziaria, conducendolo a una nuova travagliata bancarotta. E, indirettamente, potrebbe cambiare qualcosa anche per i circa 50 mila risparmiatori italiani che in passato non hanno accettato la perdita del capitale investito.
RITORNO AL PASSATO. Com'è possibile che il tempo non sia passato e l'Argentina sia rimasta invischiata nei conti di un decennio fa?
La faccenda è complessa: da una parte c'è un governo sovrano in crisi finanziaria, dall'altro investitori privati decisi a non cedere sui centesimi di dollaro e in mezzo un tribunale che ha la facoltà di decidere come uno Stato debba ripagare i propri debiti, con conseguenze destinate a estendersi ben al di là dei confini della Terra del fuoco.
Ecco la crisi dell'Argentina in cinque punti.

1. Non tutti i creditori hanno accettato la ristrutturazione del debito

  • La Corte suprema Usa ha imposto il pagamento all'Argentina (©GettyImages).
La sentenza della Corte suprema Usa è arrivata dopo un contenzioso durato quasi un decennio.
Nel 2001, infatti, l'Argentina fece bancarotta per 100 miliardi di dollari. Uscita dalla fase di pura emergenza, Buenos Aires propose due ristrutturazioni del debito: la prima nel 2006 e l'altra nel 2010.
RIMPIAZZATI I BOND. In concreto il governo argentino è riuscito a rimpiazzare il 93% dei bond di vecchia emissione, quelli ad alto rischio e con elevati tassi di interesse, con nuove obbligazioni 'post default' meno costose per le casse nazionali.
La scadenza per il pagamento era fissata per il 30 giugno 2014.
IL NIET DI ELLIOTT. Alcuni hedge fund americani, però, hanno chiuso ogni spiraglio di accordo. In particolare il fondo Elliott Associates di Paul Singer.
Forte di 23 miliardi di dollari di asset e cause vinte contro i governi di Congo e Perù, l'hedge fund della Grande Mela aveva in portafoglio Tango bond per un totale di 630 milioni di dollari, oggi rivalutati a diversi miliardi, e ha rifiutato di accettare una ristrutturazione che fruttava meno di 30 cent per ogni dollaro dovuto.

2. Lo scontro in tribunale e l'imposizione del pagamento della Corte suprema Usa

  • La nave Ara Libertad sequestrata in Ghana nel 2012 (©GettyImages).
Nell'ottobre del 2012, Nml Capital, una sussidiaria dell'hedge fund, ha sequestrato in Ghana la nave argentina Ara Libertad come risarcimento per i debiti non pagati.
La fregata e il suo equipaggio di 300 persone è stata al centro di un caso internazionale, finito davanti al tribunale di Amburgo che ne ha disposto poi il rilascio.
LA COMPETENZA DEGLI USA. Nel frattempo, però, Eliott, il fondo fratello Aurelius Capital e Blue Angel si erano appellati alla giustizia Usa: le intese erano legate al mercato finanziario di New York e quindi la competenza era di diritto americano.
Avevano contestato l'accordo raggiunto dall'esecutivo argentino con gli altri creditori e nel novembre del 2012 vinsero la loro battaglia, in quello che la stampa d'Oltreoceano definì «il processo del secolo».
BLOCCATI I PAGAMENTI. Il ministro delle Finanze argentino Alex Kicillof parlò allora di fondi avvoltoi e rilanciò la battaglia legale fino alla Corte suprema Usa.
Ma l'ultima sentenza, arrivata il 16 giugno, giusto a due settimane dalla scadenza per il pagamento degli altri creditori, ha dato ragione agli uomini di Wall Street. Così i 539 milioni di dollari depositati dall'Argentina al fiduciario banca Mellon di New York per chiudere la partita della ristrutturazione sono stati bloccati.
UN MESE PER L'ACCORDO. Buenos Aires ha tentato l'ultima carta: chiedere una sospensione dell'esecuzione della sentenza. Ma il 26 giugno il tribunale ha imposto un altroniet.
Ora ci sono altri 30 giorni di tempo per trovare un accordo e rispettare i termini per pagare tutti. Le banche internazionali si sono già lanciate sull'affare, proponendosi come intermediari tra l'esecutivo di Cristina Kirchner e le società di investimento americane, incassando cospicui proventi.
Il 7 luglio a New York è fissato il primo faccia a faccia. Se le trattative non dovessero andare in porto, l'intero banco è destinato a saltare.

3. L'Argentina non ha sufficiente liquidità per pagare tutti

  • In cassa l'Argentina ha appena 16 miliardi di dollari (©GettyImages).
L'Argentina ha spiegato di non potersi permettere il saldo del debito con i fondi di investimento Usa e ha proposto di pagare una cauzione di 300-400 milioni di dollari per poi pagare la cifra restante in bond a partire dal 2015. Ma per ora i negoziati non hanno dato esito positivo.
GOVERNO DEBOLE. Dopo il pronunciamento dell'Alta Corte Usa, la posizione dello Stato sudamericano si è fatta particolarmente debole di fronte ai fondi di investimento, ma anche agli occhi degli altri creditori.
La sentenza Usa, infatti, impone a Buenos Aires di pagare contemporaneamente sia gli hedge fund sia coloro che hanno accettato il concambio.
LA CLAUSOLA RUFO. Ma nelle intese sottoscritte per la ristrutturazione, figurava una piccola clausola chiamata 'Rufo' (Rights upon future offers) che consente ai titolari di bond di chiedere rimborsi superiori nel caso in cui l'Argentina migliori l'offerta a chi non ha accettato lo swap.
Se insomma Baires pagasse una cifra più vantaggiosa ai fondi di investimento, gli altri creditori potrebbero rifarsi legalmente. Un bel pasticcio.
RISERVE GIÀ IPOTECATE. Le richieste di rimborsi potrebbero quindi lievitare a 15-20 miliardi di dollari. Senza considerare che parte delle riserve in valuta estera presenti nelle casse della banca nazionale argentina sono già ipotecate tra crediti verso altri Paesi e depositi con il Fondo monetario internazionale (Fmi).
Conti alla mano, la liquidità disponibile ammonta a 16 miliardi dollari, dando corpo allo spettro di un nuovo crac. Poi c'è da fare i conti con le eventuali, esorbitanti, spese legali. Dunque, anche i 50 mila risparmiatori italiani potrebbero non essere ripagati.

4. Rating spazzatura e Borsa a picco: il crac può diventare realtà

  • Il 16 giugno la Borsa argentina ha perso l'11% (©GettyImages).
Il 16 giugno, il giorno del giudizio della Corte suprema Usa, l'indice della Borsa argentina è precipitato di 11 punti percentuali. Trascinando giù anche il pesos.
Il 17 giugno l'agenzia Standard & Poor's ha portato il rating argentino a CCC- che corrisponde al livello junk, spazzatura.
INTERESSI ALLE STELLE. Gli interessi sui Tango bond sono quindi schizzati alle stelle. Oggi chi ha in mano 10 milioni di dollari in obbligazioni argentine a cinque anni, per mettersi al riparo deve acquistare assicurazioni sul debito (credit default swap) spendendo 6,5 milioni di dollari, di cui 4 da pagare anticipatamente.
POSSIBILE DEFAULT. Detto più chiaramente: per i mercati ci sono tre possibilità su quattro che l'Argentina fallisca entro i prossimi cinque anni.
In ogni caso, l'eventuale contagio sarebbe limitato o quanto meno particolarmente rallentato dall'isolamento finanziario in cui l'Argentina vive dai tempi del default. 

5. L'opzione del fallimento rischia di essere cancellata dal diritto

  • Il default argentino potrebbe avere conseguenze molto estese (©GettyImages).
Le conseguenze, tuttavia, potrebbero essere ben più estese. Il caso argentino potrebbe essere un pericoloso precedente per tutti i Paesi che valutano di ristrutturare il loro debito e che si trovano nelle mani dei giudici di New York e Londra, le maggiori Piazze finanziarie mondiali.
L'ALLARME DEL FMI. I primi a uscire rafforzati dalla estenuante battaglia legale, infatti, sono i detentori di bond. Lo stesso Fmi, impegnato in prima linea sul fronte dei prestiti alle nazioni in via di sviluppo, ha lanciato l'allarme sulla sentenza americana: «Siamo preoccupati per le possibili implicazioni sistemiche più ampie». E la preoccupazione è stata rilanciata dall'assemblea delle Nazioni unite, dove i Paesi di secondo e terzo mondo sono numericamente in maggioranza.
SOLDI AI CREDITORI. Secondo Mark Blyth, professore di Economia politica internazionale alla Brown University, interpellato dalla Cnbc, la decisione rischia anche di rovesciare l'ordine di priorità dei creditori da pagare, per cui solitamente i governi pagavano prima gli altri governi e solo in seconda battuta gli investitori privati: «La vecchia gerarchia davvero non si applica più».
In questo modo l'opzione del fallimento rischia di essere cancellata dal diritto, più che dalla convenienza economica: un altro colpo a segno per le regole del mercato finanziario e l'ennesimo schiaffo alla sovranità degli Stati nazionali. 
Mercoledì

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