domenica 6 aprile 2014

Poi ci chiediamo perché l'Italia affonda. Perché le persone capaci e intelligenti sono costrette a scappare all'estero.

Adriano Chiò: «La Sla? Questione di geni e ambiente»

Ha scoperto Matrin3, uno di quelli che causano il morbo di Gehrig. «Ma la cura è ancora lontana». Chiò racconta la sua battaglia di scienziato contro la malattia. E denuncia: «In Italia non si investe in ricerca».

INTERVISTA
di Gianna Milano
Non è la prima volta che Adriano Chiò, neurologo all’ospedale Le Molinette di Torino, fa notizia.
Cinque anni fa si ritrovò - suo malgrado - a occuparsi di un “miracolo”. Antonia Raco, sua paziente dal 2004 e affetta da una variante di sclerosi laterale amiotrofica o Sla, dopo un viaggio a Lourdes tornò al suo paese in Basilicata, Francavilla in Sinni, si alzò dalla sedia a rotelle e riprese a camminare.
Oggi Chiò è tornato al centro dell'attenzione per aver scoperto un altro gene coinvolto nella Sla, malattia neurodegenerativa che colpisce i motoneuroni e lentamente paralizza il corpo.
SCOPERTO IL GENE MATRIN3. È nota anche come morbo di Gehrig, dal nome del famoso giocatore di baseball americano degli Anni 40 che ne fu colpito e ne morì a soli 38 anni dopo aver giocato 2130 partite consecutive, dal suo esordio fino a quando fu costretto a ritirarsi. Un vero record.
Il nuovo gene, chiamato Matrin3, è stato individuato analizzando il Dna di 108 famiglie (32 in Italia) con casi ricorrenti di Sla ed è localizzato sul cromosoma 5.
I risultati della ricerca, frutto del lavoro di un team di ricercatori del Consorzio Italsgen che riunisce 18 centri universitari e ospedalieri, si sono guadagnati la copertina di Nature Neuroscience, rivista di grande impatto scientifico.
UN TEAM DI SCIENZIATI INTERNAZIONALI. Hanno partecipato al lavoro anche scienziati oltreoceano dei National Institutes of Health (Nih), a Bethesda, una piccola cittadina non lontana da Washington.
«Non è il primo gene che scopriamo. Due anni fa ne abbiamo individuato un altro con un ruolo nella sclerosi laterale amiotrofica, il C9orf72, che è sul cromosoma 9. I geni più comuni coinvolti nella malattia di tipo ereditario (il 15% del totale dei casi) sono cinque. Ma ce ne sono anche altri. Per questo non è corretto dire che abbiamo scoperto 'il gene' della Sla, ma uno dei geni della malattia, importante sì, ma non il solo». A parlare è Chiò, scienziato convinto che il cervello sia così infinitamente complesso da sfuggire a una visione biologica dei suoi fenomeni, e per il quale ciascuna delle scoperte fatte rappresenta solo un tassello in più per cercare di capire, e dare spazio alla speranza.
  • Adriano Chiò, neurologo all’ospedale Le Molinette di Torino (ansa).
D. Il gene, si sa, fa notizia. E le metafore della genetica sono accattivanti...
R. Sì, perché subito si immagina di poter sostituire il gene alterato con uno sano. Non è così. Ora sappiamo che le promesse della terapia genica degli Anni 90 non si sono avverate. Le ricerche meno “glamour” non attirano l'attenzione dei media. Per esempio le ricerche cliniche che possono migliorare la qualità di vista del paziente e aiutarci a stabilire con maggiore precisione l’evoluzione della Sla.
D. Perché avete chiamato il gene Matrin3?
R. È presente nella nomenclatura internazionale già da quando si mappò il genoma umano alla fine del secolo scorso. Non ha un significato specifico.
D. Parlando di fattori non genetici, ci sono sviluppi negli studi sul rapporto fra Sla e calcio?
R. Il giudice Raffaele Guariniello commissionò due perizie di tipo epidemiologico per verificare se tra i calciatori professionisti il doping potesse aver causato un rischio maggiore di contrarre qualche patologia. La prima perizia venne eseguita da un gruppo di ricercatori guidata da me, mentre la seconda fu affidata a Stefano Belli, epidemiologo dell'Istituto Superiore di Sanità.
D. Per arrivare a quali conclusioni?
R. Entrambi gli studi mostrarono un maggior rischio di Sla nei calciatori professionisti italiani rispetto alla popolazione generale. Dall'analisi da me condotta il pericolo di contrarre la malattia in serie A e B  è risultato circa sette volte maggiore rispetto alla popolazione generale, dai dati dell'Iss il valore salì a 11 volte.
D. Che tipo di perizie vennero eseguite?
R. La mia fu su 7.325 calciatori professionisti italiani che hanno militato in serie A e B dal 1970 al 2001. Lo studio dell’Iss è stato condotto invece su un campione più ampio, 24 mila giocatori, dal 1960 al 1996, e includeva anche quelli della serie C. In questo caso l'indicatore considerato non è stato l'incidenza ma la mortalità. Gli studi furono pubblicati nel 2005 con il benestare di Guariniello.
D. Ma torniamo al gene appena scoperto. Come si è svolta in dettaglio l'indagine?
R. Di tutti i casi famigliari siamo andati a cercare i geni già noti. Sono una quarantina quelli correlati in qualche modo con la malattia. Dopo questo nostro primo screening il materiale è stato inviato a Bethesda, negli Usa, dove hanno eseguito il sequenziamento dell'esoma, ossia della parte di Dna che codifica per le proteine.
D. Come mai negli Stati Uniti e non in Italia?
R. Non è una questione di tecnologie disponibili, il fatto è che loro hanno dei bioinformatici che sono in grado di lavorare su questo materiale. Un esoma è come la memoria di un computer. È un lavoro complesso. Noi abbiamo anche raccolto il gruppo di controllo, cioè delle persone sane: se trovo in un paziente una mutazione devo essere certo se sia davvero coinvolta nello sviluppo della malattia. Esistono anche varianti non patogene dei geni.
D. L'alterazione del gene Matrin3 che cosa comporta?
R. Se questo gene ha una mutazione, la proteina che produce non funziona più. Almeno, non come dovrebbe, ovvero altera il metabolismo dell'Rna, e determina tutta una serie di danni che in parte conosciamo e in parte no.
D. In quanto tempo avete fatto il lavoro di reclutamento e analisi?
R. In poco più di due anni, perché avevamo già selezionato molto bene prima i malati. Man mano che scopriamo geni, aumentano i casi ereditari che prima non venivano individuati come tali.
D. Questa scoperta può avere ricadute anche sui casi non ereditari?
R. L'idea è che le forme genetiche possano aiutarci a capire anche i casi non ereditari, perché probabilmente il meccanismo che si altera per la mutazione si può modificare anche per fattori ambientali, cioè l'ambiente può agire sul metabolismo dell'Rna, così come l'alterazione del gene Matrin3. In ogni caso, ereditari o no, clinicamente sono identici. Se si trova una cura per le forme ereditarie, si cureranno anche quelle che non lo sono.
D. Quali le terapie possibili?
R. Le terapie con gli oligonucleotidi antisenso sono una delle nuove aree di studio per lo sviluppo di farmaci: permettono di bloccare il gene malato, prendendo di mira con totale specificità quasi tutti i processi cellulari. Noi abbiamo due cromosomi 5, uno viene dalla madre e l'altro dal padre, e in uno dei due il gene è mutato e nell'altro no. Ma sappiamo che basta che ne funzioni uno di gene.
D. Se si blocca quello alterato, l'altro sano continuerà a svolgere il suo compito?
R. Sì. E la malattia potrà essere fermata. Oligonucleotidi antisenso si stanno sperimentando in fase 1 negli Usa con il gene SOD1, uno dei primi a essere scoperto e la cui mutazione ha un ruolo nello sviluppo della malattia. Un anno fa è uscito uno studio su Lancet Neurology. Ora si va verso la fase 2 e si spera in una vera svolta per la terapia della Sla. Sono fiducioso. La speranza c'è ed è concreta.
D. Entro quanto tempo si potrebbe disporre di una cura?
R. C'è una fase preclinica molto lunga. Questi nucleotidi vengono sperimentati prima sulle cellule, e si vede se vivono o muoiono, poi si passa ai modelli preclinici, si prova e si verifica cosa succede, poi si passa all'uomo in fase 1.
D. Quanto può durare l'intero processo?
R. Da cinque a otto anni ed è costosissimo. In Italia purtroppo abbiamo pochissime aziende con biotecnologie di questo tipo e dipendiamo dall'estero. Questo grazie alla politica del nostro Paese che investe pochissimo in queste tecnologie avanzate che pure producono ricchezza.
D. Si è detto che i fattori ambientali hanno un ruolo in questa malattia. Quanto vengono studiati?
R. Il microambiente cellulare e il macroambiente contano entrambi: per un 50% c'entra l'ambiente e per l'altro 50 sono i geni. Si fanno molti progressi in genetica: i geni ce li portiamo dentro e sono più stabili. L'ambiente è più complesso da studiare.
D. Ci sono studi in corso?
R. Stiamo lavorando a una grossa ricerca finanziata dalla Ue  il cui leader è il professor van den Berg in Olanda a Utrecht, proprio sull'ambiente insieme alla genetica perché si vogliono analizzare entrambe le componenti. Durerà un paio di anni e ci darà certo dei risultati. Ha coinvolto 1.600 pazienti, e circa la metà sono italiani.
D. Quanto vengono indagate le altre ipotesi all'origine della Sla?
R. L'ipotesi autoimmune è la meno probabile e si basa sull'idea che anticorpi attacchino i motoneuroni bloccando la trasmissione dell'impulso nervoso tra cervello e muscoli. Io credo comunque che una ipotesi non debba escludere l'altra.
D. Sono molte le alterazioni in gioco?
R. Bisogna pensare alla cellula come a una fabbrica in cui se blocchi un punto della catena di montaggio non produci un danno solo lì, dopo poco tempo l'intera fabbrica comincia a non funzionare. È una catena di eventi, ciascuno dei quali va aggredito e bloccato. Al di là della possibilità di correggere il danno genetico, penso si debba intervenire su più fronti per poter fermare o rallentare la malattia.
D. Posso chiederle come sta oggi, a distanza di cinque anni, Antonia Raco, la paziente “miracolata”?
R. Sta bene la signora, la vedo ogni sei mesi. Il suo è un evento inspiegabile scientificamente. Un fatto insolito che deve indurmi a riflettere e a capire ciò che non so. Io sono cattolico, e così dicendo non nego Dio e la fede. Più si va verso la complessità e più ci s'avvicina a Dio. Se ci riconduciamo a una visione deterministica della medicina, eliminiamo il libero arbitrio e la singolarità.
Sabato, 05 Aprile 2014

TAG: ADRIANO CHIÒ - CURA SLA - SLA - GENE SLA - MATRIN3

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