Perché abbiamo davvero bisogno di una Buona Scuola
6 maggio 2015 in In evidenza, Prima pagina
Dicono che la scuola italiana è d’eccellenza e che non va toccata. Sarà, eppure a Londra dove lavoro e vivo i miei coetanei italiani laureati fanno mestieri che i tedeschi o gli olandesi non fanno. E non perché sono più scemi, ma semplicemente perché non parlano l’inglese. Inglese che si dovrebbe imparare sin dalle elementari. Purtroppo però l’inglese chi lo ha imparato ha fatto da solo, perché nell’ottanta percento dei casi gli insegnanti di inglese che ho incontrato non erano in grado neanche di esprimersi in italiano.
Dicono anche che gli insegnanti non vanno valutati dai presidi. E da chi altro, mi chiedo? Forse si potrebbe farli valutare dal salumiere o dall’estetista o dall’edicolante. Quello che in Italia viene paventato come clientelismo all’estero si chiama valutazione, ed è alla base di ogni sistema meritocratico. Anche all’università, parlo per esperienza, i professori vengono valutati continuamente: dai dirigenti, da panel esterni e dagli alunni. In Inghilterra, alla fine di ogni corso lo studente ha disposizione un bel questionario in cui valuta il professore, questo non significa sminuirne l’autorità ma riconoscere la reciprocità del rapporto educativo. Nel sistema italiano invece allo studente al massimo si chiede di andare a prendere il caffè durante la ricreazione. E il clientelismo che da scandalo è quello del preside con il collegio dei docenti, non quello dei professori con gli alunni. I sindacati vogliono una scuola in cui i professori siano casta di intoccabili e infallibili, non valutati da nessuno se non da se stessi. Il massimo dell’autarchia corporativista. Invece la valutazione è il cuore del progetto educativo a cui gli insegnanti non possono sottrarsi. Badate bene, anche i presidi vanno valutati e come se vanno valutati. Basterebbe innanzitutto che i concorsi si vincessero per merito e titoli, non per vicinanza politica.
La valutazione continua e reciproca fra insegnanti, alunni e dirigenti è fondamentale per incrementare la qualità del nostro sistema educativo. Perché la verità è che la nostra scuola pubblica è ancora profondamente classista. Classista quando distingue fra scuole di serie A e di serie B, periferia e centro, istituti professionali e licei. Classista quando non paga l’insegnante adeguatamente come in altri paesi europei, ma anche quando non lo rimuove, se è incapace, licenziandolo. Quanti ne ho avuti di professori incapaci che venivano in classe a fare propaganda politica, terrorismo psicologico o morale cattolica. I brillanti, quelli che ispirano alla Attimo Fuggente, li ho visti di rado e spesso erano ostracizzati, invidiati, dai colleghi mediocri. Stendiamo poi un velo pietoso sugli insegnanti di religione pagati coi soldi dello Stato per organizzare le messe di Natale e qualche recita su Gesù Bambino. Se chiedere una scuola di eccellenti al corpo docenti è troppo, come si può chiedere lo stesso agli alunni?
E poi il rapporto novecentesco con il sistema di valutazione degli alunni per cui se come me sei figlio del censo sei bravo a priori mentre se sei un povero disgraziato di periferia devi fare il doppio della fatica. Alla base vi è che a differenza di quanto accade in molti paesi europei, il nostro sistema di valutazione non è anonimo e asettico. Il metodo medioevale dell’interrogazione invece che della prova finale sancisce la discrezionalità più assoluta rimessa nelle mani del docente-padre padrone della classe che non valuta ma giudica. Io sono dovuto andare a Londra per scoprire che gli esami si facevano per iscritto e in forma anonima, e che venivano valutati da due insegnanti diversi. In Italia, se il professore pensa che sei un cretino (e magari lo sei), cretino lo rimarrai a tuo malgrado tutta la vita.
Senza contare che la libertà di insegnamento sfocia il più delle volte in un conformismo provinciale e autoreferenziale. Ai ragazzi si chiede di imparare la lezioncina, di tradurre una versione, ripetere un capitolo di storia dell’arte, scrivere un tema sul decadentismo, magari dibattere il tema del giorno sui quotidiani, sorbirsi qualche patetica lezione di vita e moralità, ma non si lascia nessuna possibilità per scoprire i propri interessi e i propri talenti. La cultura scolastica italiana è volta alla mera nozionistica ottocentesca e uccide la libertà creativa dell’educazione. A fianco delle materie basiche ci dovrebbe essere un range di materie opzionali a discrezione dell’alunno secondo i suoi interessi. Se un ragazzo per esempio da grande vuole fare il fotografo non avrà modo di scoprire questa sua passione se non fuori dai percorsi didattici. Se poi vuole fare il fornaio, apriti cielo! Ecco che poi ci si meraviglia degli alunni svogliati e poco attenti, per non parlare dell’abbandono scolastico. Il nostro sistema educativo ci vuole tutti latinisti-umanisti iscritti a Giurisprudenza.
In ultimo, l’autonomia scolastica che mette in competizione gli insegnanti spaventa chi vuole fare della scuola un luogo di spartizione politica. L’insegnante, che invece è sicuro del proprio mestiere, non ha paura di cambiare scuola, di andare dove è più richiesto, magari guadagnando di più come accade in Europa. Recentemente ho conosciuto una ragazza, insegnante primaria a Londra che ha deciso di lasciare la scuola in cui lavorava per andare ad insegnare in una scuola d’eccellenza per bambini svantaggiati, in cui c’è più lavoro da fare e lo Stato giustamente ti paga di più. In Italia, invece, è tutto appiattito, non c’è competizione, non c’è ricambio, non c’è mobilità. E’ il provveditorato che comanda e tutti contenti. Tutti tranne quelle decine di migliaia di giovani aspiranti insegnanti, che magari hanno titoli di studio, master e specializzazioni, ma che non possono gareggiare con gli inamovibili vecchi (anche nell’eventualità che i suddetti vecchi siano degli imbecilli) o trovare lavoro (neanche precario) mettendosi nel mercato. In Italia, l’alternativa al mercato è il metodo barbarico della graduatoria, dei concorsoni novecenteschi, dello scorrimento, delle raccomandazioni. E non fatemi parlare di università. In Inghilterra, ho vinto tre dottorati in tre diverse università inglesi senza conoscere nessuno e senza che nessuno mi conoscesse. Mi è bastato mandare una email, con una proposta di ricerca, il mio curriculum accademico, una lettera motivazionale e due referenze accademiche. Mi è stato fatto un colloquio e comunicato asetticamente una decisione. In Italia, per vincere un dottorato devi accendere un cero a qualche santo o trascorrere dieci anni della tua vita a fare lo schiavo di un barone universitario che forse un giorno si ricorderà di raccomandarti. Non è un caso se poi le università inglesi sono top-ranked nel mondo e quelle italiane non compaiono mai neanche fra le prime 100 posizioni.
La cosa che mi fa più rabbia è però che i rappresentanti studenteschi queste cose non le dicono e si ricordino del loro ruolo solo quando c’è de protestare contro il ministro di turno. Invece dovrebbero essere gli studenti (e parla uno che il rappresentante in Consulta Provinciale, per di più di sinistra, lo ha fatto per anni) a chiedere più merito, valutazione e concorrenza fra gli insegnanti.
Dicono anche ciò che vale per l’estero non possa valere per l’Italia, al netto delle specificità italiche (corruzione, malaffare, clientele). Il massimo del pessimismo e della rassegnazione. Dispiace che siano proprio i giovani ad arrendersi, a non riuscire ad immaginare un’altra Italia possibile e funzionante. Io non mi associo a questo declino ontologico per cui meglio essere mediocri, meglio essere contro, meglio essere in maniera conformista critici contro tutto e tutti. L’Italia ha bisogno di molto di più. Speriamo che sia davvero la volta buona.
Marco Palillo
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