Pensioni, l’ingiustizia generazionale di un Welfare contro i giovani
Il sistema previdenziale è la voce più costosa della nostra spesa sociale, e solo grazie alla riforma Fornero è diventato finanziariamente sostenibile. Media e classe politica però preferiscono discutere di questo squilibrio, difendendo i diritti dei pensionati
Le pensioni
sono di nuovo un tema di grande attualità dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il blocco della perequazione degli assegni deciso dal governo Monti nel “Salva Italia”. Una larga parte dei media e dei partiti si sono schierati per il risanamento immediato, e completo, dell’ingiustizia subita dai pensionati che beneficiano di assegni tre volte superiori al minimo. Il punto di vista dei giovani, della sostenibilità del sistema previdenziale così come dell’equità del nostro Welfare è stato però ancora una volta ignorato.
MEDIA E PENSIONI – Numerosi media, in particolare i giornali e le TV che fanno riferimento in diverso modo alla frastagliata galassia berlusconiana, si sono schierati per il rimborso completo dagli assegni previdenziali bloccati dal decreto Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici approvato a dicembre 2011. Il governo Monti, all’epoca appena insediatosi mentre il nostro Paese stava scivolando verso la bancarotta con il tasso di interesse dei Btp intorno al 7,5%, e rendimenti dei titoli a breve termine a livelli leggermente inferiori, decise misure di urgenza sulla più importante voce di spesa del nostro bilancio, le pensioni. L’esecutivo dei tecnici ha cambiato il sistema previdenziale, abolendo le pensioni di anzianità, aumentando l’età per le pensioni di vecchiaia, e introducendo per tutti i futuri recettori il calcolo contributivo al posto del più generoso retributivo. Interventi che sono serviti per contenere l’esplosione della spesa previdenziale e stabilizzare i conti pubblici per i prossimi anni. Per far fronte all’emergenza finanziaria il decreto Salva Italia bloccò la perequazione delle pensioni per gli assegni di importo pari o superiore a 1406 euro lordi.
Una misura equivalente al blocco dei salari dei lavoratori pubblici deciso dallo stesso governo Monti, al fine di contenere il disavanzo degli esercizi di bilancio dal 2012 in avanti. Il blocco delle pensioni, così come l’intera legge Fornero, sono diventate rapidamente molto impopolari, e hanno decretato la rapidissima consunzione della popolarità del senatore a vita ex presidente del Consiglio. In questi anni di rapida riscrittura della storia il sostegno al governo Monti è stato rimosso senza colpo ferire, come mostra anche il sostegno mediatico alla decisione della Corte Costituzionale. Il risarcimento del blocco della perequazione è stato chiesto in maniera compatta da una larga maggioranza dei media, a partire da quelli più vicini al centrodestra. Il giornalista economico di Panorama Marco Cobianchi ha rimarcato come l’unica fascia d’età in cui i quotidiani siano più letti della media sia quella superiore ai 60 anni. I giornali cartacei si sono schierati dunque a favore dei loro lettori, con la stessa logica dei sindacati che si battono per i diritti dei pensionati, loro blocco di iscritti più significativo, dimenticandosi spesso quali siano gli interessi dei lavoratori, in particolare dei più giovani.
LEGGI ANCHE
L’assalto miope alla riforma Fornero
Ecco come saranno le pensioni delle nuove generazioni
Rimborso pensione ad agosto: tutto quello che c’è da sapere
SPESA PREVIDENZIALE – L’Italia è il Paese industrializzato con la più alta percentuale di spesa pubblica in pensioni, secondo una ricerca dell’Ocse diffusa a fine 2014. Il nostro Paese spende il 31,9% del totale della spesa statale in questa voce, di gran lunga la posta più corposa del nostro bilancio, come rilevato dal rapporto dell’Ocse pubblicato a fine 2014. L’erogazione delle pensioni, nel consuntivo 2014 inserito nel Documento di economia e finanza approvato poche settimane fa, è costata poco meno di 257 miliardi di euro, il 15,9% del Prodotto interno lordo.
Per il 2015 e gli anni successivi il governo Renzi stima spese leggermente superiori in termini assoluti, a ritmo di aumenti di circa 3 miliardi di euro l’anno fino al 2016 e poi di circa 8 dal 2017 al 2019. La crescita prevista dal governo ridurrebbe la spesa in relazione al Pil. Questi calcoli sono stime, particolarmente incerte per quanto riguarda la creazione di ricchezza misurata dal Prodotto interno lordo, ma confermano come la spesa previdenziale rimarrà anche nei prossimi anni la voce di bilancio di gran lunga più rilevante e sostanzialmente incomprimibile al di sotto del 15% del Pil. La spesa previdenziale costa 100 miliardi di euro in più rispetto ai salari erogati dallo Stato a tutti i dipendenti pubblici, e 150 miliardi in più rispetto a quella per la tutela sanitaria.
Come si nota da questo grafico del Def, la curva è salita verso l’alto in modo piuttosto ripido a partire dal 2010, per poi stabilizzarsi nel 2015 e gradualmente scendere fino al 2030. L’aumento degli anni scorsi è stato generato dal crollo del Pil seguito alla recessione, che ha ridotto le risorse complessive generate dalla nostra economia. La stabilizzazione della spesa previdenziale su un valore comunque molto alto come il 16% del Pil è stato determinato, come rimarca anche il Def, grazie i risparmi generati dalla riforma Fornero.
A partire dal 2015-2016, in presenza di un andamento di crescita più favorevole e di un rafforzamento del processo di innalzamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento, il rapporto fra spesa pensionistica e PIL decresce per un periodo di circa quindici anni, attestandosi al 15 per cento in prossimità del 2030, per l’effetto del contenimento esercitato sia dall’innalzamento dei requisiti di accesso al pensionamento che dall’introduzione del sistema di calcolo contributivo, i quali superano abbondantemente gli effetti negativi indotti dalla transizione demografica.
WELFARE SBILANCIATO – Dalla sua approvazione la riforma Fornero è stata oggetto di diversi interventi di correzione su uno dei suoi punti più controversi, i cosiddetti esodati. Il brusco innalzamento della età di vecchiaia e ristrutturazioni aziendali effettuate in buona parte con lo strumento dei prepensionamenti ha creato un problema rilevante, con decine di migliaia di lavoratori senza più sussidi sociali dopo aver perso la propria occupazione, e troppo giovani per andare in pensione. Dalla fine del 2011 a ora sono state introdotti sette interventi di salvaguardia a favore degli esodati, che hanno tutelato poco meno di 200 mila persone. Un aggravio di spesa superiore ai 10 miliardi di euro, che ha solo parzialmente diminuito i risparmi cospicui generati dalla riforma Fornero. Secondo l’INPS l’aumento dell’età pensionabile e il passaggio al contributivo hanno generato una riduzione di spesa di circa 80 miliardi di euro tra il 2012 e il 2021. Nel 2014 si sono quasi dimezzate, da 150 mila a poco più di 80 mila, le pensioni di anzianità erogate rispetto all’introduzione della riforma previdenziale.
L’ultimo Documento di economia e finanza sottolinea che l’andamento previsto mostra come il processo di riforma del sistema pensionistico attuato nel corso degli ultimi due decenni riesca, in misura sostanziale, a compensare i potenziali effetti di medio-lungo periodo della transizione demografica sulla spesa pubblica per pensioni come anche evidenziato in sede internazionale. Il nostro sistema previdenziale è stato messo in ordine per i prossimi decenni, ma rimane eccessivamente costoso. il cuneo fiscale , la somma delle imposte che gravano sul costo del lavoro, è uno dei più alti tra i Paesi industrializzati dell’area Ocse, e i contributi previdenziali ne rappresentano una delle parte più cospicue. In relazione alla spesa delle pubbliche amministrazioni la spesa per le pensioni assorbe quasi il 70% delle prestazioni complessive, percentuale di circa 10 punti sopra la media europea. Il Welfare italiano è così sbilanciato in modo significativo verso le fasce più alte della popolazione, e il suo funzionamento dipenda da una base piuttosto ristretta di occupati. Secondo l’ultimo rapporto dell’ISTAT sul nostro mercato del lavoro le persone con un’occupazione sono poco più di 22 milioni. Un numero di poco superiore alle prestazioni pensionistiche erogate dall’INPS, che al primo gennaio 2015 sono 18 milioni, a cui andrebbero aggiunte gli oltre 3 milioni e 700 mila assegni per pensioni di invalidità e sociali. Le prestazioni non sono individuali, e l’Istat indicava in poco di meno di 16 e milioni e mezzo il numero totale dei pensionati presenti in Italia.
GIOVANI DIMENTICATI – I numeri relativi al sistema previdenziale italiano indicano quanto il dibattito pubblico, condotto in particolar modo dai leader politici, sia orientato verso le fasce di anziane più età. Una situazione perfettamente coerente con il nostro Welfare. Nel nostro Paese non esistono strumenti universali di sostegno al reddito; i decreti attuativi del Jobs Act in merito alla riforma del sussidio di disoccupazione hanno introdotto novità come Asdi o Dis-Coll, assegni rivolti ai senza lavoro di lungo periodo o a chi ha abbia perso un contratto a progetto, ma hanno dotazioni finanziarie scarse e incerte. Senza questo tipo di sostegno al reddito la liberalizzazione del mercato del lavoro e i cicli aziendali accelerati dalla globalizzazione renderanno ben poco stabile la vita di milioni di persone. Una circostanza già subita dalla generazione dei nati negli anni settanta, e che si accentuata a causa della lunga recessione attraversata dall’Italia negli ultimi anni. Servirebbero ingenti risorse per trasformare il Welfare e adattarle alle esigenze dell’economia, ma manca la volontà politica, ulteriormente indebolita dalla crisi scoppiata a fine 2008 e non ancora finita. La riduzione della spesa previdenziale potrebbe e dovrebbe essere la via principale per adottare una spending review efficace e capace di generare risorse, per tagliare il carico fiscale che disincentiva il lavoro così come per finanziare forme di Welfare più adatte all’economia italiana. Il nostro Stato sociale è iniquo verso i giovani, ma allo stesso modo non si può negare come la maggior parte delle pensioni abbia importi modesti. Secondo i dati dell’Istat nel 2013 l’importo medio annuo delle pensioni è stato pari a 11.695 euro . Il 33,7% delle pensioni è di importo mensile inferiore a 500 euro (incidendo per l’11,1% sulla spesa pensionistica complessiva) e una quota analoga (32,4%) raggruppa le prestazioni con importo tra i 500 e 1.000 euro. Al crescere degli importi diminuisce la quota dei trattamenti erogati: il 23,4% dei trattamenti ha un importo compreso tra 1.000 e 2.000 euro mensili, il 7,6% tra 2000 e 3000 euro, il 3,0% supera i 3.000 euro mensili. Come ha rimarcato l’economista Sandro Brusco in un’analisi pubblicata su Noise from Amerika, ciò non toglie che i pensionati abbiano beneficiato in questi anni di aumenti di reddito superiori a quelli ottenuti dai lavoratori dipendenti.
Nel 2006 il reddito medio equivalente dei pensionati era pari alla media nazionale, mentre quello dei lavoratori dipendenti era pari al 110%. Nel 2012, il reddito equivalente dei lavoratori dipendenti resta pari al 110% della media nazionale, ma quello dei pensionati è salito al 115%. Oggi in Italia i pensionati ottengono in media un reddito superiore a quello dei lavoratori dipendenti!
La riduzione della spesa previdenziale potrebbe generare risorse significative solo con un intervento a partire dalle pensioni medie, ma l’incostituzionalità di una misura emergenziale come il blocco della perequazione ha ulteriormente diminuito le chance di un simile intervento, già praticamente nulle vista l’assenza di volontà politica.
Nessun commento:
Posta un commento