giovedì 1 maggio 2014

E rottamiamoli questi nullafacenti di sindacalisti che per quaranta anni prendono i soldi dai contribuenti senza essere controllati da nessuno.

Anche il sindacato ha i suoi rottamatori

Le idee di due sindacalisti eretici per adeguare la legislazione al mondo del lavoro che cambia
  
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Dalla concertazione alla contrattazione
«Ammettiamolo. Il sindacato confederale sta facendo fatica a misurarsi con il salto di modernizzazione e di riforme in materia di lavoro che il Governo Renzi vuole calare nel nostro Paese». Comincia così una lunga lettera che Gigi Petteni, Segretario Generale della Cisl Lombardia, ha inviato ai suoi dirigenti, funzionari, delegati solo qualche settimana fa.
Bergamasco, sessant’anni, Petteni è un personaggio non nuovo a posizioni che suonano eretiche, anche all’interno della sigla sindacale che, sin dagli anni Cinquanta, ha incarnato l’anima meno intransigente della rappresentanza dei lavoratori italiani. Cinque anni fa, pochi mesi dopo la sua elezione a segretario regionale, si è inventato il Festival della contrattazione, un evento annuale in cui sono raccontate e premiate le migliori esperienze di contrattazione aziendale. L’anno scorso ha aperto il congresso regionale in collegamento video da Bruxelles, «perché volevo far capire ai miei che nella mia gerarchia territoriale, oggi l’Europa conta più dell’Italia». Nella sua lettera aperta — «l’ho scritta di domenica, di getto, in poco più di un’ora», — Petteni mette in discussione numerosi dogmi sindacali.
Prima eresia: il salario minimo, «che in Italia c’è sempre stato, quello fissato dai contratti nazionali», oggi non copre una quota importante di lavoratori. Petteni elenca i casi uno per uno: «Cocopro, partite iva economicamente dipendenti, cottimisti in agricoltura o nei subappalti dell’edilizia, dipendenti di false cooperative spurie».  Colpa del capitale cattivo? Dei tecnocrati al potere? No, secondo Petteni. Non solo, perlomeno: «Due anni fa, la legge Fornero aveva previsto che i Contratti collettivi nazionali potessero fissare i salari base dei cocopro. Chi di noi ne ha fatta una vera priorità? Quasi nessuno». In parole povere: se oggi il mercato del lavoro è duale e discrimina chi ha tutti i diritti e le tutele e chi non ne ha alcuna, la colpa è anche del sindacato. Scontato, direte voi. Lo è un po’ meno se esce dalla bocca di un sindacalista.

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Seconda eresia: allo stato attuale, la contrattazione aziendale è molto più efficace e utile della concertazione nazionale. «Oggi – continua la lettera di Petteni – decine di accordi si negoziano unitariamente e silenziosamente sui luoghi di lavoro (Fiom compresa) per recuperare competitività, produttività, acquisire commesse, anche sterilizzando i risultati contrattuali del passato e modificando le norme dei contratti nazionali». Interpellato sul tema, rincara la dose: «I nuovi lavori non sono schiavismo, ma sono la dimostrazione di una nuova concezione del lavoro emergente. Non so quante partite iva vi rinuncerebbero. Il problema è il salario, semmai. Il problema è capire ognuno cosa vuole. Gli accordi collettivi sono gabbie, per gli individui, se non sono adattati sulle esigenze di ogni singolo individuo, se non sono tagliati sulle sue esigenze e sulle sue competenze. Perché oggi siamo tutti diversi.
Terza eresia: Renzi e il suo Jobs Act non sono il male assoluto. Anzi, laddove esso «si propone di creare un sistema universale di tutele nei rapporti di lavoro, di fronte agli ammortizzatori sociali e alla disoccupazione (…) è un’occasione per superare la precarietà trasformandola in buona e tutelata flessibilità». Aggiungendo, non contento, che il sindacato «con la bilateralità e la contrattazione, ha già costruito in alcuni settori e territori risposte che vanno nella stessa direzione». La chiosa: «Dobbiamo contribuire a realizzare le riforme». Non esattamente la “dottrina Camusso”.

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Arriva a pensare, Petteni, che in sempre più ambiti, piccoli imprenditori e lavoratori non siano controparti dialettiche, ma potenziali alleati: «Su alcune delle prestazioni sociali ci dovrebbe essere un fondo tra imprenditori e lavoratori, assieme. Le esigenze mutualistiche dei lavoratori sono le stesse delle partite iva. Ci riempiamo la bocca di partecipazione alle scelte aziendali e di “modello tedesco”, ma le nostre piccole realtà dovrebbero addirittura andare oltre. Si badi bene, e lo dico da sindacalista: non dovrebbe essere il sindacato a entrare nei consigli di sorveglianza, ma il lavoratore. È il lavoratore che deve fare la rappresentanza».
Dal contratto collettivo al contratto personale
C’è chi va ancora oltre. Anche lui si chiama Gigi, ma di cognome fa Copiello, di anni ne ha 64, è Veneto e dopo decenni di onorato servizio come segretario della Cisl di Vicenza e dei metalmeccanici della Fimi, si è ritagliato una seconda vita come opinionista, commentatore e scrittore. Recentemente, ha scritto insieme a Luca Vignaga, direttore del personale di Marzotto, un saggio per il volume Undici Idee per l’Italia edito da Marsilio. Già il titolo è un programma: «Dal contratto collettivo al contratto personale. Il nuovo mercato del lavoro italiano». In due decine scarse di pagine, Copiello e Vignaga demoliscono la concertazione e la contrattazione collettiva.
Negli ultimi anni, spiegano Copiello e Vignaga, «si è ritenuto conveniente mantenere a un livello “alto” lo scontro tra azienda e sindacato che ha prodotto un appiattito egualitarismo salariale e una falsa sicurezza del posto di lavoro. Questa pace sociale tra capitale e lavoro, tutta giocata su schermaglie ideologiche, ha mostrato i suoi limiti». Secondo loro, «è necessario un cambio di direzione che metta al centro il lavoratore dando spazio alle sue competenze, perché non basta l’eliminazione di alcune storture dell’attuale mercato del lavoro o una nuova stagione di relazioni sindacali per dare fiato all’occupazione».

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Al centro di questa nuova stagione Copiello e Vignaga mettono quello che loro chiamano contratto personale, «dove il soggetto e l’azienda “scambiano” competenze, disponibilità, crescita professionale e salario qualificato», per passare «da una condizione di egualitarismo fatta di vincoli al ribasso per il lavoratore, a una situazione di sviluppo della persona che lo libera e lo renda “adulto”».
Nella trattativa personale, il sindacato non scomparirebbe, anzi. Tuttavia, si troverebbe a negoziare per ogni singolo lavoratore ruolo e competenze, definirne il titolo della posizione che andrebbe a ricoprire, strutturarne le attività, circoscriverne obiettivi e responsabilità. Il ruolo è solo l’antipasto, ovviamente. La proposta Copiello-Vignaga prevede anche agevolazioni fiscali per la formazione continua, la formazione obbligatoria durante la cassa integrazione e l’abolizione dei centri per l’impiego per recuperare risorse. Il piatto forte, ovviamente, è la negoziazione personale dell’orario di lavoro e del salario.
Relativamente all’orario, i due propongono la totale deregulation dell’orario di lavoro: «Le necessità di orario – spiegano - si differenziano a seconda dell’età, dal giovane appena entrato in azienda al lavoratore-nonno; delle fasce a cui appartiene, dai single a chi ha una famiglia numerosa. Ci sono poi i lavoratori migranti i quali, come i nostri ai loro tempi, “non sono qui per perdere tempo”». Possibilità di non usufruire delle ferie, di modulare l’orario giornaliero in funzione delle esigenze familiari, addirittura di usufruire di anni sabbatici.
Il salario, infine. Secondo Copiello e Vignaga, è qui che le cose devono cambiare davvero. La diagnosi è nota e suffragata dai dati: oggi l’Italia ha gli stipendi più bassi d’Europa, tanto più per le professioni ad alta specializzazione. «Le retribuzioni contrattuali statiche, l’irrilevanza del salario variabile, la retorica inconcludente su produttività e merito – spiegano - hanno prodotto un appiattimento delle retribuzioni reali medie degne dei passati regimi sovietici. Con impennate “sorprendenti” e ingiustificate per talune posizioni. È l’altra faccia di un lavoro ridotto a massa, posto, costo, vincolo e peso. Per entrambe le parti, lavoratore e azienda». La proposta Copiello e Vignaga prevede una parte variabile della retribuzione che può arrivare sino al 20 per cento, l’introduzione di elementi di welfare pagati dall’azienda (sul modello Luxottica) abbattendo il tetto massimo dei 258 euro di prestazioni di beni e servizi cui oggi le imprese sono obbligate a sottostare. Non solo: «La persona, inoltre, sul welfare aziendale potrebbe, a fronte di diverse opzioni e in funzione delle sue necessità, gestire una gamma di prodotti e/o servizi proposti dall’azienda anche in funzione delle sua tappe di vita lavorativa: il valore dell’asilo aziendale, quando la famiglia lo richiede; un plafond di spese sanitarie più alto, quando vi sono particolari necessità».
Lo so, state pensando quel che ho pensato io: dal contratto personale di Copiello-Vignaga al contratto “lavora-finché-crepi” di Merril Lynch – Bank of America il passo rischia di essere molto breve. Quel che non avevo colto, tuttavia, era la presenza di tre grandi tipologie contrattuali collettive — pubblico, privato, servizi alla persona — che fisserebbero limiti massimi e minimi di ciascuna singola contrattazione, finendo per fare terra bruciata degli oltre 400 contratti di settore. Una prospettiva, questa, che ha convinto diversi professori universitari come Giuseppe Berta, Enzo Rullani, Stefano Micelli e Paolo Feltrin e responsabili risorse umane di numerose e importanti imprese. Sindacalisti non ce n’è, né dei lavoratori, né delle imprese. A loro, Copiello e Vignaga dedicano la loro chiosa. «È ormai palese che il loro ruolo di grandi regolatori in verità si esercita su ben poco. Ma la centralizzazione li ha burocratizzati al loro interno ed essi hanno perso il contatto con la conoscenza e il governo dei reali processi riguardanti il lavoro e il relativo mercato – affermano - . Ben più importante è la loro funzione nel diffondere i risultati prodotti dai contratti personali, che possono diventare le linee guida per modificare il mercato del lavoro e delle professioni».

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