domenica 28 settembre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.

“Vengo dal Sud, ma la mafia l’ho incontrata a Torino” 

Emigrato in Valsusa dalla provincia di Catanzaro, un trafficante di droga l’ha ridotto in miseria
Raffaelle Fazio (a destra) e l’avvocato Salvatore Gullì al palazzo di giustizia di Torino

07/03/2014
TORINO
Oltre mille chilometri, da Sud a Nord, per denunciare il boss della ’ndrangheta che l’ha rovinato. È la storia di Raffaele Fazio, da Serrastretta, provincia di Catanzaro, che ha trovato la mafia in Piemonte dov’era migrato in cerca di fortuna. Ha perso tutto: famiglia, casa, lavoro. Ed è tornato a vivere in Calabria. Un giudice torinese ha ascoltato la sua storia. «Mi sono rimaste solo la dignità e la voglia di giustizia», ha raccontato. E il coraggio necessario per puntare il dito contro Cesare Polifroni, l’uomo che l’ha ridotto sul lastrico: «Non cerco vendette, chiedo solo i miei soldi per ricominciare».  
Fazio in Valsusa arriva nel 1991. Ha 40 anni, moglie, due figlie piccole, «il sogno di scappare dal Meridione che non offriva nulla». Carica tutti sul treno, dodici ore di viaggio, fermata a Sant’Antonino, «in quattro in una camera e cucina», ricorda. È un bravo artigiano, si rimbocca le maniche e l’anno dopo apre una falegnameria ad Avigliana. 

Tradito da un amico  
Nel 1998 è un amico - un compaesano - a presentargli il boss: «Disse che era un costruttore, un calabrese, uno di cui fidarsi». Gli stringe la mano, si mette al lavoro, non si preoccupa se ogni tanto Polifroni tarda nei pagamenti o gli offre assegni in cambio di contanti. Leggerezza? «Sembrava una persona onesta». 
Presto però la verità viene a galla perché si tratta di assegni fasulli che il falegname è costretto a rimborsare. Accetta anche «una cambiale da 50 milioni di lire garantita dalla banca» ma è protestata, non può riscuoterla. Incalza l’impresario, gli chiede soldi, spiegazioni, minaccia di denunciarlo. Il boss prende tempo poi getta la maschera e sono «insulti, ricatti, botte» racconta Fazio. L’artigiano cade nella depressione, non ha il coraggio di confessare ai familiari l’incubo in cui si è cacciato: la moglie tiene duro poi, esasperata, scappa con le figlie. Nel frattempo i debiti lo travolgono e nel 2003 gli pignorano la casa, chiude l’attività, vende i macchinari, mette sulla strada gli operai. Agli investigatori che lo indagano per il fallimento fa nomi e cognomi, ma nessuno gli dà retta: «Quelli dell’Antimafia avrebbero certamente compreso il mio dramma», commenta con amarezza. 

Il boss amico di Riina  
Perché Polifroni non è uno sconosciuto negli ambienti della Dia. Nato a Ciminà - nel cuore della Locride, triangolo dei sequestri di persona - viene arrestato a Torino nel ’94. Quando i poliziotti lo ammanettano, al suo fianco c’è una giovane sudamericana: una cugina del colombiano Pablo Escobar, re del narcotraffico internazionale. Pochi mesi dopo Polifroni si pente e inizia la lunga confessione al procuratore Vincenzo Macrì. È un fiume in piena. Rivela i retroscena di alcuni omicidi di Cosa nostra, spiega i presunti rapporti tra Dc e mala siciliana, descrive gli incontri tra i boss calabresi e Gheddafi «per organizzare un colpo di Stato o quantomeno la secessione della Calabria e della Sicilia». Notizie apprese dall’amico Giacomo Riina, lo zio di Totò. Racconta anche che nel ’92 l’omicidio del giudice Scopelliti «fu ideato da Cosa nostra facendo leva su alleati calabresi per far cadere in prescrizione il processo ai corleonesi». Nicola Gratteri, sostituto procuratore di Reggio Calabria, lo definisce «pezzo grosso della ’ndrangheta torinese». Tutto tranne che un pesce piccolo, quindi. 

La fuga in Calabria  
Oggi Fazio è tornato in Calabria. «Torna chi ha fatto fortuna, non chi deve ripartire da zero», mormora. Agli amici lasciati vent’anni fa ha raccontato la sua storia. Ha incassato «qualche pacca sulle spalle, sorrisi tirati, sguardi sfuggevoli». E tanto silenzio. Non si è arreso, a Serrastretta vuole aprire un laboratorio per trasformare il legno in combustibile. Ma prima deve chiudere i conti ancora in sospeso col passato. Polifroni lo ha incontrato in tribunale, a Torino, la città dove il boss vive ai “domiciliari”. Il suo avvocato, Salvatore Gullì, ha chiesto «i soldi che l’imputato si impegnò a restituire al mio cliente». Il giudice deciderà a maggio ma Fazio, che fino a qualche giorno fa ignorava i trascorsi del boss, non si è tirato indietro. Ha deciso che lo denuncerà all’Antimafia: «Sono vittima della ’ndrangheta, allo Stato chiedo un aiuto per rifarmi una vita». A sessant’anni, in Calabria, nella sua terra. 

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