Renzi: "Sul lavoro superiamo i tabù"
D'Alema: "Oratoria lontana dalla realtà"
Il segretario cambia pelle al Partito Democratico portandolo verso un voto che ridisegna definitivamente il rapporto con i sindacati: «Il lavoro non si crea difendendo le regole di 44 anni fa». L'attacco di D'Alema: «L’oratoria, purtroppo, certe volte, fa sì che non ci sia attinenza tra quello che si dice e la realtà»
Matteo Renzi cammina per i corridoi della sede del Pd con la camicia bianca d’ordinanza. Arriva al podio della sala della direzione del partito, e comincia: «Vi propongo di votare un documento che segni il cammino del Pd sul tema del lavoro, e ci consenta di superare alcuni tabù». Non c’è spazio per equivoci, sia dunque chiaro, così come non c’è altro spazio per mediazioni, né coi sindacati, né con le minoranze Pd. Sull’art. 18 non si va oltre l’ultima formulazione, limata fino all’ultimo minuto a palazzo Chigi: il diritto al reintegro per i licenziamenti senza giusta causa resterà solo «per il licenziamento discriminatorio e per quello disciplinare». E basta. Per il resto, ci sarà solo l’indennizzo, in caso di licenziamento, stabilito «proporzionalmente all’anzianità contributiva, senza bisogno di un avvocato, per legge».
"Vi propongo di votare con chiarezza al termine" della direzione "un documento che segni il cammino del Pd sui temi del lavoro e ci consenta di superare alcuni tabù che ci hanno caratterizzato in questi anni" dice Matteo Renzi alla direzione Pd, proponendo "profonda riorganizzazione del mercato del lavoro e anche del sistema del welfare". "Serve un Paese amico di chi vuole investire e dare risposte ai nuovi deboli che sono tanti, e hanno bisogno di risposte diverse da quelle date finora" ha aggiunto
Matteo Renzi ha così cambiato pelle al partito democratico, portando la direzione del partito verso il voto di un documento che cambia chiarisce la posizione sul lavoro, toglie alcuni dubbi sulla legge delega in discussione al Senato, e ridisegna definitivamente il rapporto con i sindacati, Cgil in testa. L’unica concessione alla minoranza, è una battuta che vorrebbe chiudere le polemiche: «Chi la pensa come la segreteria non è un emulo di Margaret Thatcher, chi non la pensa come la segreteria non è un Flintstones, per usare le parole di Cuperlo».
"Chi non la pensa come la segreteria non è un Flintstones e chi la pensa come la segreteria non è Margareth Thatcher. Sono due posizioni che meritano rispetto, che si confrontano con un voto e nel lavoro parlamentare" ha detto Matteo Renzi alla Direzione del Pd. "Le mediazioni vanno bene, i compromessi vanno bene, ma non a tutti i costi" ha aggiunto
Il discorso Renzi comincia con una lunga premessa, che tiene dentro gli 80 euro, la nomina del ministro Mogherini in Europa e le «molte riforme fatte», che in realtà sono perlopiù avviate, incardinate ma ancora lontane dall’approvazione definitiva: «Gli elettori si sono affidati a noi per cambiare l’Italia» dice Renzi, che torna ancora a vantarsi del risultato delle europee.
Poi si arriva al lavoro, con Renzi che replica a giorni di dibattito, e riprende il copione anticipato con la partecipazione a Che tempo che fa, su Raitre. «Si dirà non sono le regole del lavoro a creare posti di lavoro. Certo. Ma non si può far finta di non vedere che senza intervento sulle regole non si va da nessuna parte». «A chi dice che eliminando l’art. 18 togliamo un diritto costituzionale, dico che il diritto costituzionale è al lavoro non all’art. 18». «Perché ci siamo sempre fermati di fronte all’impressione di un totem?». «Il lavoro non si crea difendendo le regole di 44 anni fa». «Il sindacato italiano ha bisogno di essere sfidato in positivo». E però, «sono disponibile a riaprire la sala Verde Di Palazzo Chigi e riaprire il confronto con le sigle sindacali: li sfido su una legge sulla contrattazione sindacale e sul salario minimo».
Il premier ha aperto poi, ufficialmente, all’anticipo del Tfr in busta paga, «a condizione che si creino le risorse di liquidità attraverso un protocollo tra Abi, Confindustria e governo per consentire alle imprese di avere quella liquidità».
Alla legge di stabilità Renzi ha rimandato, infine, per le coperture, annunciando «almeno 2 miliardi di riduzione del costo del lavoro». Con una premessa, rigorista, però: «Abbiamo scelto di rispettare il limite del 3%» dice, perché «sappiamo che il danno di reputazione che l'Italia avrebbe sarebbe più grave dei vantaggi che potremmo avere». Giustificata è così l’osservazione di Andrea Ranieri, civatiano, uno dei primi della minoranza a prender la parola: «Mi fa piacere, Matteo, che metti tutti questi soldi. Mi piacerebbe sapere anche dei tagli però, per sapere se ci conviene».
La replica più attesa è quella di Massimo D’Alema. Un susseguirsi di bordate: «Sono un ammiratore dell’oratoria del segretario che secondo una visione moderna si rivolge più a un vasto pubblico che a noi che siamo qui» è l’esordio. «Ma l’oratoria, purtroppo, certe volte, fa sì che non ci sia attinenza tra quello che si dice e la realtà». D’Alema fa notare a Renzi che il governo Prodi investì 7 miliardi sul costo del lavoro, «e che non è quindi la prima volta che si interviene sul cuneo», e poi che «non c’è nessun tabù, perché l’art. 18 non ha 44 anni ma due anni», quanti cioè ne ha la legge Fornero.
''E' un impianto di governo destinato a produrre scarsissimi effetti e ho anche l'impressione che questo cominci a essere percepito almeno nella parte più qualificata dell'opinione pubblica". Così Massimo D'Alema, esponente della minoranza Pd, nel corso della direzione nazionale del partito sul Jobs act rivolgendosi a Matteo Renzi. "Meno slogan, meno spot e un'azione di Governo più riflettuta - ha aggiunto - credo siano la via per ottenere più risultati come partito".
«Mi scuso per l’oratoria terra terra», continua D’Alema, sprezzante. «L’art.18 non esiste già più, ma esiste
una tutela residuale che si riferisce a una grave illegittimità». Bisogna semmai «monitorare quella norma», che anzi «non copre tutta la casistica che dovrebbe coprire». «Non è obbligatorio sapere i fatti, ma sarebbe consigliabile studiarli», ripete più volte D'Alema, ripercorrendo la storia delle ultime riforme, anche mancate, del lavoro. «La pura eliminazione della possibilità del reintegro sarebbe l’applicazione del modello spagnolo», continua l'ex premier, «supereremmo anche il Regno Unito di Thatcher e Blair, e non vedo perché dovremmo porci fuori dal confine della civilità». «Una riforma di questo tipo» dice poi D’Alema riferendosi alle coperture per gli ammortizzatori sociali, contropartita del più facile licenziamento, «non costa un miliardo e mezzo di cui parla il segretario, ma dieci volte di più». La critica di D’Alema è a tutta la legge di stabilità: «Le finanziarie» dice, «non si fanno con molti spot, un miliardo qui, un miliardo qua, cifre piccole che rischiano di non dare effetti».
«Io non ho la leggerezza di Massimo D’Alema» dice poi Giuseppe Civati, che pure però non va per il sottile: «Ieri sera in tv ho visto un premier che diceva cose di destra, e non so se è questa la nuova sinistra». Civati si lamenta soprattutto della «velocità» delle informazioni date dal premier, soprattutto sulle coperture ma anche sui limiti del contratto unico: «Vorrei capire se questo contratto potrà o no esser aggirato in continuazione».
Matteo Renzi ha così cambiato pelle al partito democratico, portando la direzione del partito verso il voto di un documento che cambia chiarisce la posizione sul lavoro, toglie alcuni dubbi sulla legge delega in discussione al Senato, e ridisegna definitivamente il rapporto con i sindacati, Cgil in testa. L’unica concessione alla minoranza, è una battuta che vorrebbe chiudere le polemiche: «Chi la pensa come la segreteria non è un emulo di Margaret Thatcher, chi non la pensa come la segreteria non è un Flintstones, per usare le parole di Cuperlo».
Il discorso Renzi comincia con una lunga premessa, che tiene dentro gli 80 euro, la nomina del ministro Mogherini in Europa e le «molte riforme fatte», che in realtà sono perlopiù avviate, incardinate ma ancora lontane dall’approvazione definitiva: «Gli elettori si sono affidati a noi per cambiare l’Italia» dice Renzi, che torna ancora a vantarsi del risultato delle europee.
Poi si arriva al lavoro, con Renzi che replica a giorni di dibattito, e riprende il copione anticipato con la partecipazione a Che tempo che fa, su Raitre. «Si dirà non sono le regole del lavoro a creare posti di lavoro. Certo. Ma non si può far finta di non vedere che senza intervento sulle regole non si va da nessuna parte». «A chi dice che eliminando l’art. 18 togliamo un diritto costituzionale, dico che il diritto costituzionale è al lavoro non all’art. 18». «Perché ci siamo sempre fermati di fronte all’impressione di un totem?». «Il lavoro non si crea difendendo le regole di 44 anni fa». «Il sindacato italiano ha bisogno di essere sfidato in positivo». E però, «sono disponibile a riaprire la sala Verde Di Palazzo Chigi e riaprire il confronto con le sigle sindacali: li sfido su una legge sulla contrattazione sindacale e sul salario minimo».
Il premier ha aperto poi, ufficialmente, all’anticipo del Tfr in busta paga, «a condizione che si creino le risorse di liquidità attraverso un protocollo tra Abi, Confindustria e governo per consentire alle imprese di avere quella liquidità».
Alla legge di stabilità Renzi ha rimandato, infine, per le coperture, annunciando «almeno 2 miliardi di riduzione del costo del lavoro». Con una premessa, rigorista, però: «Abbiamo scelto di rispettare il limite del 3%» dice, perché «sappiamo che il danno di reputazione che l'Italia avrebbe sarebbe più grave dei vantaggi che potremmo avere». Giustificata è così l’osservazione di Andrea Ranieri, civatiano, uno dei primi della minoranza a prender la parola: «Mi fa piacere, Matteo, che metti tutti questi soldi. Mi piacerebbe sapere anche dei tagli però, per sapere se ci conviene».
La replica più attesa è quella di Massimo D’Alema. Un susseguirsi di bordate: «Sono un ammiratore dell’oratoria del segretario che secondo una visione moderna si rivolge più a un vasto pubblico che a noi che siamo qui» è l’esordio. «Ma l’oratoria, purtroppo, certe volte, fa sì che non ci sia attinenza tra quello che si dice e la realtà». D’Alema fa notare a Renzi che il governo Prodi investì 7 miliardi sul costo del lavoro, «e che non è quindi la prima volta che si interviene sul cuneo», e poi che «non c’è nessun tabù, perché l’art. 18 non ha 44 anni ma due anni», quanti cioè ne ha la legge Fornero.
«Mi scuso per l’oratoria terra terra», continua D’Alema, sprezzante. «L’art.18 non esiste già più, ma esiste
una tutela residuale che si riferisce a una grave illegittimità». Bisogna semmai «monitorare quella norma», che anzi «non copre tutta la casistica che dovrebbe coprire». «Non è obbligatorio sapere i fatti, ma sarebbe consigliabile studiarli», ripete più volte D'Alema, ripercorrendo la storia delle ultime riforme, anche mancate, del lavoro. «La pura eliminazione della possibilità del reintegro sarebbe l’applicazione del modello spagnolo», continua l'ex premier, «supereremmo anche il Regno Unito di Thatcher e Blair, e non vedo perché dovremmo porci fuori dal confine della civilità». «Una riforma di questo tipo» dice poi D’Alema riferendosi alle coperture per gli ammortizzatori sociali, contropartita del più facile licenziamento, «non costa un miliardo e mezzo di cui parla il segretario, ma dieci volte di più». La critica di D’Alema è a tutta la legge di stabilità: «Le finanziarie» dice, «non si fanno con molti spot, un miliardo qui, un miliardo qua, cifre piccole che rischiano di non dare effetti».
«Io non ho la leggerezza di Massimo D’Alema» dice poi Giuseppe Civati, che pure però non va per il sottile: «Ieri sera in tv ho visto un premier che diceva cose di destra, e non so se è questa la nuova sinistra». Civati si lamenta soprattutto della «velocità» delle informazioni date dal premier, soprattutto sulle coperture ma anche sui limiti del contratto unico: «Vorrei capire se questo contratto potrà o no esser aggirato in continuazione».
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