Viaggio nel cuore del made in Italy
Volete capire che ne sarà dell’economia italiana? Arezzo è il posto giusto da cui partire
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«Giorgio, s’i’ho nulla di buono nell’ingegno, egli è venuto dal nascere nella sottilità dell’aria del vostro paese d’Arezzo», pare disse un giorno Michelangelo Buonarroti al suo concittadino Giorgio Vasari. Allo stesso modo, qualche secolo più tardi, Giosuè Carducci, anch’egli aretino, ribadì il concetto affermando che «Basterebbe Arezzo alla gloria d’Italia». Ok, forse chi è nato da queste parti il campanilismo ce l’ha nel sangue. Tuttavia, probabilmente c’è un po’ di verità nelle loro parole, non fosse altro che queste terre hanno visto nascere, oltre a loro, Gaio Clinio Mecenate, Guido Monaco (l’inventore delle note musicali), Francesco Petrarca, Piero della Francesca, Masaccio, Andrea Cesalpino (l’uomo che ha scoperto la circolazione sanguigna) e una quantità impressionante di poeti, drammaturghi e musicisti, dei quali Roberto Benigni è, a suo modo, l’ultimo epigone.
Arezzo non è solo il suo centro storico, tuttavia: la storia e la gloria d’Italia non si fermano agli artisti e agli inventori. I distretti industriali, ad esempio: Arezzo ne ha tre. Giù verso Siena e Grosseto, a San Zeno, c’è il cuore del distretto orafo nato attorno alla Unoaerre: se siete sposati, c’è buona probabilità che la vostra fede sia stata prodotta lì. Verso nord, ci sono invece il distretto del tessile-abbigliamento del Casentino e della Val Tiberina e quello che produce cuoio, pelli e calzature nel Valdarno superiore.
Anno di record e piazzamenti di prestigio per i tre distretti aretini. Orafo e pelletteria sono tra i dieci distretti che hanno fatto registrare il maggior aumento percentuale delle esportazioni, peraltro in un anno di crescita record. Per la precisione, al sesto posto si è piazzato il distretto della pelletteria e delle calzature, il cui export è cresciuto in valore di 171 milioni di euro, arrivando a un valore complessivo oltre 650 milioni; al primo, quello orafo, che con una crescita di 369,6 milioni è arrivato a valere oltre 2 miliardi di euro complessivi. Non solo: secondo uno studio di Unioncamere, tessile-abbigliamento e pelletteria sono risultatianche tra i primi venti distretti italiani per competitività complessiva, rispettivamente tredicesimo e secondo. Non bastasse, è qui ad Arezzo che stanno emergendo alcuni dei cluster più interessanti legati alla produzione e all’uso di energia proveniente da fonti rinnovabili. Non so se sia la «sottilità dell’aria» di cui parla Michelangelo o cos’altro. Quel che è certo è che non c’è posto migliore di Arezzo se si vuole capire dove andrà a finire l’Italia. E non c’è posto migliore per cominciare questa ricerca, della casa delle imprese per eccellenza, la Camera di Commercio.
«Qui la luce in fondo al tunnel ancora non si vede». Così vengo accolto da Isabella Bietolini e Domenico Asprella, rispettivamente addetta stampa e responsabile del Centro Studi della Camera di Commercio di Arezzo. Pessimismo o sano realismo? I dati non sciolgono i dubbi. Nel 2013 il fatturato estero aretino (+4,3%) è cresciuto più che nel resto della Toscana (+1,2%), ma il fatturato complessivo è calato (-1,1%), mentre nel resto della regione è cresciuto (+1,2%). Allo stesso modo, la produzione industriale è cresciuta del 0,7%, contro il -0,5% toscano, ma l’occupazione è calata di 1,2 punti, mentre il toscana è cresciuta. Nel 2014 si prevede che il Pil aretino crescerà dell’1,1%, più di quello toscano e italiano, che invece si fermeranno allo 0,9%. «Forse qui la metamorfosi è più accentuata che altrove – osserva il Presidente della Camera di Commercio Andrea Sereni – qui le imprese hanno ripensato profondamente il loro modello di business, si sono adeguate ai tempi, hanno cambiato tipologia di prodotto, si sono differenziate dai loro concorrenti. Molti marchi sono spariti e la produzione si è consolidata attorno a grandi gruppi. Penso a Prada, dell’aretino Patrizio Bertelli, che qui fa tutte le lavorazioni d’eccellenza, così come la logistica e la progettazione dei punti vendita». Certo, alla base c’è ancora l’altissima qualità manifatturiera, sia per il tessile, che per la pelletteria e per l’orafo: non è un caso che qui la subfornitura - soprattutto quella per grandi marchi come Prada, Gucci, Cavalli, Dolce & Gabbana, Chanel, che qui fanno vestiti, gioielli, borse e scarpe – non solo abbia tenuto, ma sia addirittura riuscita a riportare ad Arezzo produzioni che fino a qualche mese fa erano state delocalizzate altrove. «Nel 2000 un oggetto fatto in Cina costava venticinque volte meno di un oggetto fatto ad Arezzo – osserva ancora il Presidente Sereni – oggi costa “solo” dieci volte tanto. Già questo spiega qualcosa, anche se credo che le produzioni tornino qua soprattutto perché è cambiato il vento e oggi i grandi marchi vogliono qualcosa di più: qualità produttiva di primo livello, ma anche grande attenzione alle esigenze del cliente e alla sostenibilità sociale delle nostre produzioni. Oggi, fortunatamente, è sempre meno accettabile che un prodotto di lusso sia figlio dello sfruttamento di lavoratori sottopagati».
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Se il distretto orafo aretino fosse un’impresa sola, Andrea Boldi ne sarebbe senza alcun dubbio l’Amministratore Delegato. 46 anni, titolare della Nemesi, una delle imprese che più si sono distinte, in questi anni, per l’innovazione del prodotto, Boldi guida da anni gli orafi di Confartigianato ed è, da qualche mese, presidente diArezzo Fiere. Parte dai numeri, Boldi, per spiegare quella che lui definisce come una delle più grandi e diffuse «riconversioni settoriali» in questi anni di crisi: «Nel 2007 il distretto orafo aretino esportava circa 100 milioni di euro in meno rispetto a Vicenza, mentre oggi esporta 600 milioni in più. Nel 2006 Banca Etruria, la banca dell’oro, aveva prestato 11mila kg di oro alle imprese per produrre i loro gioielli; nel 2013 ne ha prestati poco più di 3mila. In questi due dati c’è tutta la metamorfosi delle nostre imprese». Ok, piccolo time out, che qualche spiegazione in più su un settore particolare come quello orafo è il caso di darla. Funziona così: le banche prestano oro alle imprese; le imprese lo lavorano; il cliente finale paga alle banche il valore dell’oro e alle imprese la manodopera. Le transazioni, in altre parole, sono due: c’è lo scambio di metallo e c’è la remunerazione della manodopera. Lo scenario peggiore per le imprese, quindi, è quello in cui la domanda cala e l’oro aumenta di valore: in pratica, quel che è successo negli ultimi anni. «Aggiungiamo un dettaglio non da poco – interviene Boldi – secondo Basilea II tutte le imprese orafe sono in default in quanto indebitate con le banche per l’oro che viene loro prestate e remunerate per la sola manodopera. A questo, aggiungiamo che la crisi delle banche ha fatto schizzare i tassi sul prestito d’uso alle stelle - nel 2006 lo spread era a 2% massimo, oggi arriva fino all’8,5% - e che il prezzo dell’oro è quadruplicato e che diverse banche, in evidente crisi di liquidità, pretendevano che le imprese restituissero loro il metallo prestato, costringendole di fatto a fare piani d’accumulo presso di loro se avessero voluto tenerlo».
Di fatto, osserva Boldi, «c’era la consapevolezza che il distretto sarebbe potuto scomparire». Se non è successo, è grazie a come è stata fronteggiata la crisi a livello politico, in particolare dalla Regione Toscana: nel 2007, l’ente si è incaricato di fare da banca per le imprese orafe a tassi più vantaggiosi, erogando in un solo anno circa 50 milioni di euro. Nel 2010, invece, è partito un progetto per finanziare un anno di stipendio e contributi da rimborsare nei sette anni successivi a un tasso agevolato, pari a circa il 2%. «In estrema sintesi – ricorda Boldi – se ti impegni a mantenere il livello occupazionale per un anno, te lo anticipo io: non come liquidità pura, però, ma in un conto vincolato solo all’erogazione di paghe e contributi». In un anno sono stati erogati oltre 45 milioni di euro solo ad Arezzo. «L’operazione è stata geniale per due motivi – osserva ancora Boldi – In primo luogo, perché ha selezionato i migliori: nessuna azienda in difficoltà avrebbe avuto interesse a entrare in questo programma, perché non potendo chiudere altre partite non avrebbe avuto convenienze ad accollarsi un debito simile. In secondo luogo, perché ha salvaguardato la forza lavoro delle imprese, fondamentale per la metamorfosi produttiva che si stava compiendo».
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Già, la metamorfosi. «La revoca del metallo ha costretto le aziende ad andare su un prodotto a più alto valore aggiunto – racconta Boldi - Dal catename siamo stati costretti ad inventarci nuove produzioni per aumentare i prezzi, e nuove tecniche di lavorazione per supportare questa trasformazione. In estrema sintesi: abbiamo convertito le macchine per la prototipazione alla produzione, riuscendo così a produrre gioielli più leggeri ad alto tasso di manodopera». Una scelta che ha pagato, questa, soprattutto in quello che era il principale mercato estero di sbocco per gli orafi aretini, quello arabo. Tra il 2011 e il 2013 le esportazioni orafe aretine negli Emirati Arabi sono quasi duplicate, passando dai 452 milioni di euro del 2011 ai 949 milioni di euro del 2013. «Siamo forti perché siamo piccoli – afferma Boldi - Delle 1200 aziende aretine, il 90% solo sei anni fa produceva qualcosa di diverso: se fossero state anche solo medie imprese sarebbe stato impossibile. La competitività dei distretti italiani è dieci volte quella della Germania: quello del capitalismo italiano non è un problema di dimensione, ma di infrastrutture e burocrazia». Mentre lo congedo, aggiunge: «Si ricordi anche che questa riconversione sarebbe stata impossibile senza il contributo delle associazioni di rappresentanza e della Camere di Commercio». Forse, penso io, dovrebbe ricordarlo al Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi: un caso come quello di Arezzo potrebbe essere utile per riflettere perlomeno sull’opportunità di abolire le Camere depotenziando contestualmente l’associazionismo di rappresentanza. In fondo – ça va sans dire – è aretina pure lei.
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Sia in Camera di Commercio sia in Fiera da Boldi, mi è stato raccomandato di non occuparmi solo di distretti, nel mio articolo. Ad Arezzo ci sono casi imprenditoriali significativi anche al di fuori delle usuali specializzazioni distrettuali. Oddio, in alcuni casi il legame è comunque forte: ad esempio, è il caso della Ceia, che nasce come produttrice di macchine orafe e che ora fa l’85% di tutti i metaldetector aeroportuali del mondo, oltre che occuparsi della sicurezza di Nasa e Casa Bianca. C’è la Tratos, uno dei principali produttori di cavi in fibra ottica al mondo. C’è Aruba, che se avete mai avuto occasione di comprare un dominio web sapete di chi sto parlando. C’è Aboca, azienda specializzata nella produzione di prodotti per la salute a base di complessi molecolari naturali. Soprattutto, c’è tutto il mondo della green economy e delle energie rinnovabili. Per raccontarlo, bisogna lasciare Arezzo e andare a Terranuova Bracciolini, nel Valdarno.
Torniamo indietro di una trentina d’anni. A Terranuova c’è un’azienda che fa prodotti elettrici ed elettronici che si chiama Magnetek. Per intenderci, produce dai motori per le lavatrici ai motori radio per i telefoni Gsm. Soprattutto, da oltre cinquant’anni, produce inverter. Il più grande produttore d’inverter al mondo è americano, si chiama Power One e nel 2008 si compra la Magnetek. Nel 2010, la domanda di pannelli fotovoltaici – di cui gli inverter sono una componente fondamentale - cresce a dismisura, trainata dagli incentivi. Power One deve espandersi per soddisfare questa domanda, ma non ha spazio. Luciano Raviola, Direttore diPower One Italia, ha un’idea. Propone a venti, storici fornitori dell’azienda di creare una società che si faccia carico di realizzare il prodotto finito con attrezzature e impianti di Power One, in esclusiva.
È così che nasce il Consorzio Terranuova. Grazie a questa trovata le imprese subfornitrici hanno consolidato il loro rapporto con Power One e integrando la produzione, sono riuscite a ridurre i costi, incrementare i servizi e liberare risorse per investire, oltre ad aver approfittato delle dimensioni consortili per strappare condizioni migliori a banche e agenzie interinali. Non è un caso che gran parte dei soci del consorzio – Elco, CPF, Cioncolini, tanto per citarne qualcuno – si siano allargate. La soluzione funziona, insomma: il Consorzio produce parecchio utile, nonostante la crisi. Utile che non può distribuire ai soci e che, quindi, va reinvestito: con quei soldi, in particolare, è stato realizzato un laboratorio di ricerca e sviluppo in cui quindici ingegneri cominciano a sperimentare e sviluppare nuovi prodotti, indipendenti da Power One. Oggi questi prodotti – o meglio, queste soluzioni – producono il 25% del fatturato del Consorzio. Si va da un sistema elettronico che controlla l’apertura di valvole con applicazioni diversi ai laser medicali, dai controlli per i sensori di parcheggio delle automobili, ai sistemi per la trasmissione bluetooth dei dati medicali dei pazienti diabetici, sino Smart Light Building un sistema di illuminazione intelligente a led che si regola si in funzione della luce esterna e della presenza di persone nella stanza. «È il momento economico che richiede accordi di questo tipo – spiega Umberto Faltoni, Direttore Amministrativo del Consorzio – Le grandi aziende cercano di non crescere troppo all’interno e fidelizzare il fornitore, evitando che sparisca; i piccoli provano ad acquisire dimensioni e economie di scala che consentano di stare sul mercato». Un anno fa, Power One è entrata a far parte del gruppo Abb. Faltoni spera di incrementare ulteriormente la produzione «Non so dire se c’è la ripresa – chiosa, mentre mi congeda – noi, grazie a Power One, la crisi nemmeno l’abbiamo vista».
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L’influenza di Power One si estende ben oltre Terranuova Bracciolini. Per scoprirlo dobbiamo tornare ad Arezzo e al 1999, anno in cui dodici amici - fisici, architetti, ingeneri, psicologi ambientali - si uniscono in una associazione culturale onlus per prendere un casolare e produrre generi alimentari a chilometro zero. Col patrocinio del Comune di Arezzo, progettano un impianto di compostaggio automatizzato ed ecologico e ricevono un finanziamento di 2 miliardi e 200 milioni dal Ministero dell’Ambiente e dall’azienda municipalizzata. Diventano cooperativa e con il ricavato del progetto iniziano a lavorare a Hydrolab: si tratta di otto container affiancati che producono acqua piovana, la depurano e la riutilizzano a circuito chiuso. Hydrolab è di fatto un presidio per un idrogenodotto realizzato dal Comune che serve le aziende orafe dell’area industriale di San Zeno. Nel frattempo, siamo nel 2008, inizia il boom degli incentivi al fotovoltaico ed entra in scena Power One. Fabbrica del Sole, questo il nome della onlus e della cooperativa, realizza con il contributo di Power One e della locale Confindustria il primo grande impianto fotovoltaico della provincia di Arezzo. I ricavi sono cospicui – 12 milioni di euro di fatturato nel solo 2011 – ma gli incentivi finiscono e nel 2012 parte il progetto Off Grid Box.
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«L’idea è semplice – spiega Emiliano Cecchini, Presidente e principale animatore della Fabbrica del Sole – abbiamo progettato un container di sei piedi e vi abbiamo integrato al suo interno sei tecnologie mature: pannelli fotovoltaici per catturare energia solare, un regolatore di carica e batterie al gel di piombo per immagazzinarla e un sistema a switch che converte l’energia elettrica in eccesso in acqua pura. C’è poi un impianto di solare termico capace di produrre acqua calda sanitaria e di innescare un forte processo di evaporazione; una grondaia con filtro collegata a una cisterna da 1500 litri per lo stoccaggio dell’acqua piovana. Il tutto, integrato e collegato con un’abitazione, consente di avere acqua, luce e riscaldamento senza essere collegato ad alcuna rete. E questo è solo il modello base». Gli optional sono molteplici, dalla produzione d’idrogeno per sostituire il metano alle turbine eoliche per aumentare la produzione di energia». L’Off Grid Box è oggi utilizzato soprattutto in ambito umanitario: in collaborazione con Oxfam Italia, Fabbrica del Sole ha ideato e gestito la realizzazione degli impianti di diversi asili totalmente scollegati dalle reti nell’Eastern Cape, in Sud Africa e ha messo a disposizione le Off Grid Box per la produzione di acqua pulita per le popolazioni dell’isola filippina di Bantayan, recentemente colpita dal tifone Haynan. Nel frattempo, continua a innovare: proprio in questi giorni, Fabbrica del Sole ha lanciato un hackaton con The Hub Firenze per creare un App che aiuti il cliente a controllare i consumi, a manutenere l’Off Grid Box e, se vuole, a personalizzarla. Non stupisce che il progetto abbia attirato gli interessi di diversi investitori da tutto il mondo, anche se Cecchini ha posto la condizione che la produzione rimanga in Italia. Probabilmente, al pari di Michelangelo, non vuole rinunciare alla «sottilità dell’aria» di Arezzo. E già che c’è, prova a renderla più pulita.
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