Senza prospettive e pronti a scappare
La voce degli adolescenti nel 2015
Aspettative? Zero. E dubbi su tutto. Tranne che sulla famiglia: il primo valore. Quando era il sesto trent'anni fa. Sono le risposte dei giovanissimi italiani a un sondaggio realizzato in esclusiva per "l'Espresso" dall'istituto Demopolis. Messo a confronto con un'identica indagine del 1983. Da cui emerge il futuro strappato ai millenials
Hanno trentadue anni di distanza. Sono stati adolescenti nel 1983 i primi, lo sono adesso i secondi. Hanno ballato “Vamos a la playa” in tuta fluo i primi, rappano come Fedez i secondi. Uscivano dal troppo pieno delle ideologie i primi, combattono col vuoto i secondi. Amavano il loro Paese i primi, se lo vogliono lasciare alle spalle i secondi. Erano l’Italia di oggi, saranno quella di domani. “L’Espresso” ha confrontato i sogni, la morale, le idee, le speranze e le paure dei teenager del 1983 e di quelli del 2015. Attraverso un sondaggio statistico realizzato nell’aprile di allora, e riproposto con Demopolis ai ragazzi di oggi.
Il volto della generazione nata al principio del millennio, che emerge dall’indagine, è una sorpresa amara. Per l’Italia. Perché da qui 4 teenager su 10 vorrebbero fuggire: erano l’11 per cento trent’anni fa. Gli Happy days evocati dal premier sono un miraggio in cui non si riconoscono. Per gli adolescenti del duemila sembra finito il futuro: non lo vedono all’orizzonte né nel lavoro né negli ideali. Nemmeno nell’amore. Resta solo il presente. Un presente stretto, circoscritto: contro il mondo spalancato dalla globalizzazione e dal Web, infatti, i valori dei giovanissimi tornano quelli rifugio della propria casa, del privato-sopra-tutto. Famiglia, matrimonio, fedeltà e verginità ricompaiono come parole di riferimento. Dal sipario esce invece del tutto la politica, affossata nel disinteresse con la sola eccezione di Sergio Mattarella.
In questo magma di infelicità, disillusione e sete di fuga emerge però anche un nucleo di domande grezze, una spinta al cambiamento ancora irrisolta: dalla voglia di “riformare in molti aspetti la società italiana” assai maggiore adesso rispetto a quella fotografata nel 1983, alla multiculturalità di fatto (il 62 per cento dei ragazzi ha amici sia italiani che stranieri) che non trova spazio nelle istituzioni.
Per ricostruire il dna di questa generazione chiusa e concreta bisogna però partire da un numero, una nuda statistica: gli adolescenti italiani nel 1983 erano quasi 5 milioni. In questo momento sono due milioni e ottocentomila (dati Istat). Due milioni in meno. La base di partenza di ogni esplorazione è dunque quella di una gioventù persa, dimezzata, di un Paese che invecchia, dove la voce dei giovani è schiacciata dal peso che occupano nelle politiche pubbliche, nei media, al lavoro, in vacanza, in ogni spazio, per forza di numeri, i più anziani.
A restituire un timbro alla voce dei giovani è questo sondaggio, realizzato in esclusiva per “l’Espresso” dall’Istituto Demopolis diretto da Pietro Vento, su un campione statisticamente significativo di 800 ragazzi e ragazze fra i 14 e i 18 anni, in tutta Italia. Le domande poste ai teenager dal 6 al 20 ottobre di quest’anno si riannodano, con poche modifiche, agli stessi quesiti fatti a uno stesso campione esattamente 32 anni fa: quasi l’anniversario del film “Ritorno al Futuro”, ma incarnato nella realtà più che nell’immaginazione.
LITTLE HOPE
Ed è in una realtà slavata, incerta, che abitano i millennials italiani nel 2015. La radiografia del loro sguardo al presente dà infatti un risultato «sconcertante», commenta Ivan Cotroneo, regista classe 1968, alle spalle provini con 4mila studenti per un progetto contro il bullismo: «Respirano una cappa d’impossibilità che gli abbiamo cucito addosso noi adulti». Alla domanda “Pensi che la tua vita sarà più felice di quella dei tuoi genitori?” nel 1983 il 71 per cento dei ragazzi rispose sì (fra molto e più felice). Oggi questa convinzione è scesa al 45 per cento. La staffetta generazionale caduta nel vuoto. Il 40 non sa. Il 15 invece è proprio sicuro che sarà più triste dei suoi (il triplo rispetto a trent’anni fa). Ferite, profonde, all’idea stessa di possibilità. Di crescita. La speranza è scomparsa. «E le nostre non erano speranze. Erano certezze», commenta l’avvocato Giulia Bongiorno, nel 1983 liceale a Palermo, oggi titolare di uno dei più celebri studi penali di Roma: «Avevamo possibilità concrete di realizzarci, non sogni».
Ora quelle possibilità sembrano dissolte, precluse. Ma la reazione non è la lotta, la rabbia, la piazza. È la voglia di fuggire: quattro teenager su 10 vorrebbero andare a vivere fuori dall’Italia. Quattro volte tanto il 1983. È vero, c’è un 47 per cento che si ritiene ancora “abbastanza soddisfatto” del nostro paese mentre il 13 dice si esserlo “molto” (allora era il 37). Ci può bastare? A loro sicuramente no, e sognano infatti di trasferirsi per sempre negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Germania (nel 1983 non era nella classifica, dove c’era invece la Svezia), Spagna, Australia, Francia.
SABBIE MOBILI
Ma anche queste mete, possibili approdi di felicità, restano offuscate da un’incertezza generale sul futuro. «La maggioranza assoluta dei giovani dubita di quasi tutto», commenta il direttore di Demopolis Pietro Vento analizzando i risultati. Il riferimento è all’elenco delle “situazioni” in cui si immaginano fra 10 anni. Pochi punti fermi: la fedeltà al partner, per il 66 per cento di loro, e quasi basta. Un terzo si ipotizza precario. Il 40 per cento si vede proiettato in un lavoro “che gli interessa”: erano 8 su 10 trent’anni fa. Il doppio. La crisi economica ha dimezzato l’aspettativa professionale. Decimato quella di carriera. E restano briciole le altre potenzialità: il successo, i figli, gli ideali.
Un abisso rispetto al 1983. Benché non fossero anni, quelli, di soli urrà. A Palermo infuriavano le guerre di mafia, ricorda Bongiorno: «Rischiavamo di abituarci ai morti sul giornale. Ma oggi vedo la città sprofondare nelle sabbie mobili del degrado. Pensavo che la mafia l’avrebbe resa statica. Invece scivola sempre più in basso». E anche i ricchi temevano. Emma Marcegaglia, erede del gruppo siderurgico di famiglia e presidente dell’Eni, ricorda il rapimento del padre, sequestrato per 52 giorni in Aspromonte proprio in quei mesi. «Noi tutti però volevamo guardare sempre avanti. Le divisioni erano profonde. Ma vive. Una volta fui trascinata a sorpresa ad un raduno di mondine: dal palco gridavano “Morte al padrone!”. Ma con il papà di una mia compagna di classe, sindacalista duro e puro della Cgil di Mantova, facevamo discussioni lunghissime, belle».
MEGAFONI E MODELLI
Quelle contrapposizioni si avviavano allora al tramonto, sotto i colpi del liberismo, dell’aerobica, delle tv commerciali. Oggi restano un fossile. Industriali di successo e sindacalisti di lotta sono scomparsi dai radar dei giovanissimi. Fra i “leader che ispirano maggior fiducia” nel 1983 primeggiava Gianni Agnelli: «Eravamo un’economia chiusa, nazionale, lui era di casa a Torino come negli States», ricorda Marcegaglia, «poi è arrivata la globalizzazione. E ora anche un piccolo imprenditore fa affari in Cina». Oggi in testa alle figure di riferimento c’è Maria De Filippi, (il suo programma televisivo, “Amici”, ha avuto quest’anno uno share del 40 per cento fra i 14-19enni), seguita da Valentino Rossi (soprattutto per i maschi), quindi Fedez, Gigi Buffon e il multiforme Pif.
Nel sondaggio erano stati proposti anche manager, o personaggi come Umberto Veronesi e Milena Gabanelli: niente. Lo sport e lo spettacolo catalizzano tutta la fede disponibile. «Vedo famiglie spendere cifre folli per un figlio sperando di ritrovarselo campione. Credono sia un buon investimento, perché i calciatori sono star», conferma Massimiliano Allegri, allenatore della Juventus, che nell’84, diciassettenne, iniziava la carriera calcistica: «Ma ai miei tempi non esistevano i fatturati che porta oggi la tv al pallone».
Il successo arriva coi talent, su un palcoscenico, in porta o su una pista. Altrove sembra rotta la catena dell’aspirazione, come mostra il questionario a proposito dell’università: meno della metà degli adolescenti si immaginano laureati fra 10 anni. Il traguardo sembra mancare negli studi come sul lavoro, per uomini e donne. Ma per le ragazze la battaglia sarà più dura, sostiene Bongiorno: «Perché da loro si aspetteranno miracoli: che portino a casa un reddito e che si occupino anche della famiglia. E se non lo faranno, verranno considerate fallite». I padri, infatti, nonostante il passaggio di una generazione, non sono molto cambiati: solo il 9 per cento degli adolescenti dice di poter discutere con loro dei propri problemi (era il 6 nel 1983). Con entrambi i genitori? Il 34. Così continua a crescere l’assolo materno. «Mia madre non lavorava. Io sì», racconta l’avvocato: «Nello studio di papà si diceva “Giulia, perché non fai il magistrato così hai i pomeriggi liberi per i figli?”. Ma osservando il cambiamento che c’era stato da mia nonna a mia mamma, e da lei a me, ero certa saremmo andate oltre. Invece no. Siamo tornate indietro».
ANTICHI VALORI
La famiglia, quindi. È questo forse uno dei dati più forti che emergono dal sondaggio. La scala dei valori in cui si riconoscono e ricompongono dallo smarrimento i millennials italiani vede la famiglia al primo posto. Era al sesto nel 1983. Oggi è considerata “molto importante” dal 96 per cento di loro. Il cardine. Subito dopo c’è il tormentato lavoro. Poi l’amicizia, un tempo in testa alla classifica, l’amore, i diritti umani, quindi i viaggi, fondamentali per l’80 per cento dei ragazzi. La cultura, in 32 anni, ha perso 13 punti percentuali d’interesse. Il sesso ne ha conquistati 17. Quello che hanno dimenticato in biblioteche, l’hanno guadagnato in eros.
«Queste risposte ci indicano le conseguenze che hanno avuto 30 anni di messaggi passati ai ragazzi attraverso i media main stream», riflette Ivan Cotroneo: «Ovvero l’idea che da fuori vengono sempre nuove minacce, che la diversità è un rischio, che dentro “casa” va trovata l’unica certezza». La casa è anche una chioccia, non religiosa ma casta: anche se il 40 per cento di loro dice di aver già avuto rapporti sessuali completi, la verginità è importante “dal punto di vista morale” per quasi un quarto dei millennials, “dal punto di vista sentimentale” per il 21 per cento (era il 18,3 nel 1983).
NO, I PARTITI NO
Fa parte del loro sguardo sul presente però anche una sensibilità nuova alle ferite del Paese. L’omofobia, ad esempio, è un problema grave per il 64 per cento di loro. Il 46 è convinto che i diritti degli omosessuali siano una priorità e più della metà pensa che le coppie omosex abbiano il diritto di sposarsi. Che la voce dei ragazzi sia inascoltata, così, lo potrebbe dimostrare da sola l’unica legge che va in questa direzione promossa dal governo di Matteo Renzi: ferma da mesi in Senato. Al Palazzo, d’altronde, hanno smesso di credere da tempo, i giovani.
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La politica interessa a meno di un terzo di loro, quanto trentadue anni fa. Enrico Letta ha iniziato ad occuparsene proprio allora, nel 1983, candidato con “Alternativa democratica” al liceo classico Galilei di Pisa: «Eravamo il riferimento cattolico progressista dell’istituto», ricorda: «Il semestre successivo si presentò la lista “Safari”, che rompeva con le ideologie. Quella stagione fu il prologo di ciò che viviamo: i miei coetanei sono la generazione che ha abbracciato il disimpegno».
Una transizione radicale che dopo Internet, dice, è diventata «rifiuto totale della mediazione, della delega». O addirittura disgusto, a veder rispuntare corrotti dopo le inchieste giudiziarie. «Noi i politici li snobbavamo. I giovani adesso li prenderebbero a schiaffi», riassume Bongiorno. L’analisi si rispecchia nei dati: il 27 per cento degli intervistati non andrebbe a votare, se ci fossero elezioni domani ; più della metà non si identifica in alcuna area politica. Quelli che hanno un riferimento, per il 22 per cento vanno verso sinistra (stesso livello del 1983), e il 19 punta a destra (dieci punti in più rispetto al primo sondaggio). «L’era del Partito di professione è finita», commenta Letta, oggi professore all’Istituto di studi politici di Parigi: «I prossimi rappresentanti dovranno avere esperienze lontane dal Palazzo ed essere capaci di capitalizzare una fiducia a scadenza».
RICOMINCIARE DA QUI
C’è un solo, silenzioso, uomo che sembra aver superato la diffidenza dei teenager nei confronti del Palazzo: è Sergio Mattarella. In lui, la carica istituzionale più alta dello Stato, oltre la metà degli intervistati dice di avere fiducia. L’unico, il personaggio politico più amato. Seguito a grande distanza (con il 24 per cento dei consensi) da Beppe Grillo e quindi dai due Matteo – Renzi e Salvini – a pari merito. Forse in Mattarella i ragazzi rintracciano una presenza seria e autentica contro quella che ritengono la piaga numero uno d’Italia: se interrogati su cosa abbia fatto più male alla società, infatti, rispondono in maggioranza “la disonestà di certi uomini pubblici”, come nel 1983. Disonestà contro cui più volte si è scagliato il Presidente della Repubblica. Cambiano rispetto al passato le cause successive: la crisi, l’evasione, l’ignoranza e l’immigrazione per i ragazzi del 2015; il terrorismo e gli scioperi per i nati alla fine degli anni ’60.
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