lunedì 15 dicembre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.


LA SFIDA PER IL COLLE

L’inutile sacrificio di Napolitano In due anni dai partiti solo parole 

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Giorgio Napolitano lascerà la presidenza della Repubblica a breve. Non prima della fine dell’anno. Ma certamente nel 2015. Allora quanto breve sarà questa permanenza al Quirinale?
Per provare a capirlo, bisogna fare un passo indietro. Tornare a quel 22 aprile dell’anno scorso, quando Napolitano si presentò alle Camere riunite che lo avevano appena rieletto. E pronunciò parole chiare e pesanti. Sottolineò come il Parlamento si era avvitato su se stesso nel tentativo di eleggere un successore al Quirinale. Spiegò come questo avvitamento stesse rischiando in quel momento di travolgere anche le altre istituzioni e che dunque gli venne chiesto di accettare un secondo mandato. E che egli acconsentì alla sua rielezione perché «bisognava dunque offrire, al paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi: passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di fiducia internazionale verso l’Italia». Questa testimonianza è stata vana?
Napolitano chiese, anzi pretese che questo suo sacrificio fosse necessario per fare le riforme. Disse venti mesi fa il presidente della Repubblica: «Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005. Ancora pochi giorni fa, il presidente (della Consulta, ndr) Gallo ha dovuto ricordare come sia rimasta ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi». Insomma, Napolitano invitava a varare una nuovo sistema per scegliere i parlamentari perché «la mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti».
Ma il Capo dello Stato poneva l’accento anche su un altro tema: «Non meno imperdonabile - disse in quel discorso a Montecitorio - resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario». E aggiunse: «Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese».
È arrivato il momento di trarre quelle conseguenze. Questi ulteriori due anni sono stati utili a qualcosa? Sia chiaro, quel giorno i partiti, tutti i partiti, presero il solenne impegno di accogliere l’appello, stavolta piuttosto accorato, di varare le riforme. Sia quella elettorale sia quelle costituzionali.
Arrivò Letta che scelse di rimanere fuori dalla legge elettorale in ossequio al principio che il governo, ovvero il potere esecutivo, non deve occuparsi della riforma del Parlamento, ovvero del potere legislativo. Ma i partiti tra Camera e Senato hanno combinato davvero poca roba. Sulle riforme costituzionali, fu approvato un disegno di legge per accelerare le procedure per modificare la Costituzione. Un testo che riuscì a fare tre passaggi parlamentari ma il governo saltò al quarto e decisivo. Sarebbe stato invece propedeutico al passo successivo, ovvero quello di varare il testo vero e proprio delle riforme a cui stava lavorando una squadra di saggi.
Poi arriva Matteo Renzi. Napolitano non ama i suoi modi ma poi piano piano si convince che sebbene poco ortodossi per la sua formazione, certamente sono efficaci. Matteo lancia l’Italicum, frutto del patto del Nazareno con Berlusconi. Sembra viaggiare spedito ma a marzo si impantana. Riparte ancora. Adesso è al Senato. Renzi vorrebbe che la commissione desse il suo via libera entro Natale, in modo tale che a gennaio si possa dare l’ok definitivo anche dell’Aula del Senato. Una tabella di marcia che appare in difficoltà ogni giorno di più. Perché Forza Italia teme che dietro questa accelerazione non ci sia soltanto un ossequio all’appello del Colle ma anche una corsa per andare alle urne. E così si è creata una strana saldatura, alquanto singolare, tra berlusconiani e minoranza Dem. I renziani hanno dato anche una mano presentando un emendamento che aggiungeva una clausola di salvaguardia, ovvero il ritorno in vigore del Mattarellum. Un piccolo gesto che ha scatenato le ire persino dei leghisti che ora con Calderoli promettono battaglia.
Partita diversa invece quella delle riforme costituzionali, che hanno effettuato il percoso inverso. Dopo l’ok spedito al Senato prima dell’estate il testo si è incartato alla Camera dove tra l’altro è stato anche modificato e dunque l’iter, di fatto, riparte da zero: se dovesse procedere velocemente e senza intoppi adesso, impiegherebbe almeno un anno.
Insomma, a quasi due anni dal «sacrificio» di Napolitano i partiti non sono riusciti a portare a casa una legge. E dire che si erano detti tutti d’accordo.

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