lunedì 13 ottobre 2014

Riceviamo e pubblichiamo.


12/10/2014

La #buonascuola insegni anche a lavorare

La formazione professionale manca nella riforma del governo, ma anche nella cultura di questo Paese

Una scena del film "41", di Massimo Cappelli /Flickr

   
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Il rapporto tra formazione professionale e scuola non solo è un “non risolto” dal punto di vista culturale, ma è, in primis, un non definito dal punto di vista legislativo e lessicale. Alla locuzione “formazione professionale” vengono, infatti, assegnati mille significati diversi, tutti influenzati dal contesto in cui sorgono e la logica gentiliana, che tutt’oggi permea le famiglie e le comunità educative, continua purtroppo a fare capolino in molte delle affermazioni e delle pubblicazioni che circondano la questione. 
Insomma, in Italia, se sei bravo fai ancora il liceo classico, se non ci riesci passi allo scientifico e poi, a scendere, il tecnico, il professionale sino alla formazione professionale, ultimo gradino della scala dell’istruzione. Non migliora le cose il dettato Costituzionale che, pur garantendo nell’Articolo 45 “la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”, ne relega la competenza alle regioni, contribuendo a rafforzare nel sentire collettivo l’idea che si tratti di qualcosa di subalterno alla scuola.
Sia chiaro che stiamo parlando della formazione professionale iniziale e non di quella continua, su cui occorrerà riflettere al più presto perché, sebbene ancora più declassata nell’opinione pubblica, rappresenta il cardine delle politiche attive del lavoro previste dall’altra grande riforma oggetto dell’azione del Governo Renzi, ovvero il jobs act.

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Nella “Buona Scuola” ci sono poche tracce di formazione professionale iniziale e le troviamo tutte V Capitolo intitolato “Fondata sul lavoro”, dove vengono portate ad esempio di buone prassi da ampliare e sviluppare, tutte quelle attività che fanno riferimento alla cosiddetta alternanza scuola-lavoro. Qui il governo propone l’obbligatorietà di tale alternanza, implementando e mettendo a valore esperienze come l’impresa didattica, la bottega scuola, l’apprendistato sperimentale e intervenendo strutturalmente sul rilancio degli Istituti Professionali, fino ad arrivare alla costituzione dei Poli Tecnico-Professionali, che muovano dall’esperienza, ancora sostanzialmente sperimentale, delle Fondazioni degli Istituti Tecnico-Professionali (ITS).
Ho già sentito nell’aria strali di giudizi negativi sul documento da parte degli operatori della formazione professionale. A loro parere, non si riconosce in pieno il sistema duale e il valore che il privato ha nel sistema di educazione professionale e non si citano i percorsi di Istruzione e Formazione Professionale che consentono all’assolvimento dell’obbligo di istruzione e formazione.
Come se fosse questo il problema. Personalmente ritengo che il punto sia altrove e, pur rischiando di prendermi una bell’accusa di benaltrismo, credo che in un testo che si dà per obiettivo la riforma della “Scuola” sia un bene non citare la “Formazione Professionale”, se non per i punti di tangenza e di intersezione tra i due sistemi.

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A scuola l’insegnante muove giocoforza dal generale al particolare, da una premessa ad una conclusione. Il metodo deduttivo tipico, non a caso, della filosofia scolastica, si esercita appunto nella scholḗ, cioè in un luogo dove si organizza il tempo libero dei giovani che diventa il luogo principe dell’istruzione. Il metodo induttivo, che potremmo volgarmente definire sperimentale e analitico, del deweyano learning by doing (dell’imparare facendo) è invece il metodo della formazione professionale. Di coloro che prima provano e, se aiutati, “riescono” e poi, a posteriori, “ricostruiscono” come ci sono riusciti.
L’Italia, il Paese di Galileo Galilei e di Don Bosco, non deve in alcun modo abdicare a sostenere e investire su chi vuole e sa imparare in questo modo, senza essere obbligato a sedere in un’aula scolastica. Per tanti che vogliono capire come si monta un motore a scoppio, è più efficace prendere un mano una chiave inglese e provare a farlo manualmente, imparando solo successivamente alle regole della fisica che descrivono il suo funzionamento.
Ora, se poiché siamo in Italia è più comodo chiamare tutto “Scuola”, facciamolo pure (mi occupo di politica e non sono per forza un maniaco della purezza del linguaggio) chiarendo, però, che non intendiamo più quella che fino ad oggi abbiamo definito così.
Se l’obiettivo è ridurre la disoccupazione giovanile e intervenendo per tempo, allora serve un buon sistema formativo che rimetta il metodo induttivo al centro. E questo può essere fatto unicamente se si prende a modello un sistema che riconosca la centralità dell’impresa, cioè il luogo dove il lavoro si crea. Anche in questo caso, però, scontiamo una forte pregiudiziale ideologica e culturale. Viviamo in un Paese in cui quando si vedono lavoro e impresa come realtà contrapposte, come se i lavoratori e gli imprenditori appartenessero addirittura a due categorie antropologiche contrastanti.

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Non è la scuola che deve diventare impresa, mi spiace, ma è l’impresa che deve entrare prepotentemente nel sistema formativo italiano. E questo non inventando nuovi strumenti didattici o nuove forme ma facilitandone nella governance dei luoghi dove si formano le persone. La stessa sfida degli ITS citata nella Buona Scuola può essere vinta solo se tali Fondazioni non rimarranno ostaggio di scuole o istituti di formazione, ma se saranno guidate e governate dalle imprese attraverso investimenti reali.
In definitiva, non è solo nel documento “La Buona Scuola” che manca la formazione professionale, ma anche nella cultura di questo paese, nei legami con le aziende, nel mancato riconoscimento che i bambini, quando da piccoli si sporcano le mani, stanno imparando facendo. Un percorso di recupero di questo deficit lo si può attuare non scrivendo o cambiando il capitolo di un documento ma riconoscendo alla Scuola un nuovo e più ampio significato, che scardina il modo stesso di intendersi di tutti gli operatori, delle famiglie e dell’intera comunità educante. 

* Davide Ricca. Imprenditore nel settore della formazione e dottore di ricerca in Scienze dell’Educazione. Esperto di processi formativi e organizzativi. Ha fondato e coordina Ateniesi.it.
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