Lezioni per l’Europa da 15 anni di deflazione giapponese
La deflazione giapponese e la lunga stagnazione di questi ultimi due decenni sono un avvertimento per l’Europa. Ma mentre nel Sol Levante la Banca centrale si rende conto che la deflazione è legata alla stagnazione salariale, in Europa la BCE chiede riforme del mercato del lavoro che rischiano di innescare una spirale di recessione e deflazione.
di Ronald Janssen – Social-Europe.eu
Mentre Mario Draghi ha preso tutta l’attenzione con il suo discorso a Jackson Hole, un altro discorso, quello di Haruhiko Kuroda, governatore della Banca del Giappone, è in realtà ancora più interessante. Le osservazioni introduttive di Kuroda sono brevi e semplici e riguardano i 15 anni di deflazione che il Giappone ha registrato a partire dalla metà degli anni novanta.
La lezione chiave è che uno shock negativo sulla domanda, se non gestito bene, innescherà meccanismi che mantengono a lungo l’economia in uno stato di depressione dopo che lo shock iniziale è terminato.
Nel caso del Giappone, lo shock iniziale che ha colpito la domanda aggregata è stato lo scoppio di una grande bolla speculativa all’inizio degli anni ’90. A sua volta, questo ha creato un circolo vizioso di depressione e deflazione, in moto dalla metà degli anni ’90 in poi. I suoi effetti si fanno ancora sentire nel mercato del lavoro di oggi.
La lezione chiave è che uno shock negativo sulla domanda, se non gestito bene, innescherà meccanismi che mantengono a lungo l’economia in uno stato di depressione dopo che lo shock iniziale è terminato.
Nel caso del Giappone, lo shock iniziale che ha colpito la domanda aggregata è stato lo scoppio di una grande bolla speculativa all’inizio degli anni ’90. A sua volta, questo ha creato un circolo vizioso di depressione e deflazione, in moto dalla metà degli anni ’90 in poi. I suoi effetti si fanno ancora sentire nel mercato del lavoro di oggi.
Ecco come Haruhiko Kuroda spiega questo circolo vizioso nel dettaglio: è iniziato con le imprese giapponesi che non sono state in grado di aumentare i prezzi di vendita a causa della generale mancanza di domanda nell’economia, provocata dallo scoppio della bolla speculativa di cui sopra. Le imprese hanno reagito a questa situazione tagliando le spese, il costo del lavoro in particolare. Questo scelte da parte delle imprese ricadono sui dipendenti non regolari, i cui salari possono essere compressi più di quelli dei lavoratori con contratti regolari. Le imprese inoltre hanno iniziato ad abbandonare la cosiddetta “offensiva di primavera” in cui il management e i sindacati delle grandi imprese si riuniscono ogni primavera per accettare aumenti simultanei dei salari. Poiché le imprese volevano tagliare i salari a causa del calo dei prezzi, hanno iniziato a vedere tale coordinamento come un ostacolo.
Inoltre, dalla fine del 1990 in poi, i salari nominali hanno iniziato a cadere più velocemente dei prezzi, provocando un forte calo della quota salari sul PIL giapponese. Con la diminuzione dei salari che insegue la caduta dei prezzi, la deflazione è diventata radicata. Inoltre, attraverso l’influenza sugli gli investimenti delle imprese, la deflazione è diventata ancora più radicata. Infatti, con le imprese che attendono che i loro prezzi di vendita continuino a cadere, la propensione all’investimento è evaporata. Perché un’impresa dovrebbe mettere su una certa quantità di finanziamenti per investire in attrezzature e macchinari se sa che i futuri flussi di cassa, che saranno generati producendo questo prodotto, soffriranno di un tendenziale costante calo dei prezzi? In tal caso, la cosa razionale da fare è di non investire in macchinari, ma di utilizzare l’aumento dei margini di profitto per accumulare grandi quantità di denaro. Ciò genererà un tasso di interesse reale positivo e può fungere da tampone contro potenziali perdite future.
La caduta degli investimenti costituisce l’anello di retroazione che chiude questo circolo vizioso. Infatti, il calo degli investimenti significa che la domanda aggregata dell’economia si ridurrà ulteriormente, e così la pressione al ribasso sui prezzi continua. L’economia quindi si ritrova intrappolata in un equilibrio deflazionistico in cui la caduta dei prezzi, la caduta dei salari e la riduzione degli investimenti si sostengono l’un l’altro. Il grafico qui sotto, tratto dalla introduzione di Kuroda, illustra come i prezzi giapponesi e i salari si sono mossi strettamente insieme e hanno sostenuto reciprocamente le loro tendenze deflazionistiche.
Inoltre, dalla fine del 1990 in poi, i salari nominali hanno iniziato a cadere più velocemente dei prezzi, provocando un forte calo della quota salari sul PIL giapponese. Con la diminuzione dei salari che insegue la caduta dei prezzi, la deflazione è diventata radicata. Inoltre, attraverso l’influenza sugli gli investimenti delle imprese, la deflazione è diventata ancora più radicata. Infatti, con le imprese che attendono che i loro prezzi di vendita continuino a cadere, la propensione all’investimento è evaporata. Perché un’impresa dovrebbe mettere su una certa quantità di finanziamenti per investire in attrezzature e macchinari se sa che i futuri flussi di cassa, che saranno generati producendo questo prodotto, soffriranno di un tendenziale costante calo dei prezzi? In tal caso, la cosa razionale da fare è di non investire in macchinari, ma di utilizzare l’aumento dei margini di profitto per accumulare grandi quantità di denaro. Ciò genererà un tasso di interesse reale positivo e può fungere da tampone contro potenziali perdite future.
La caduta degli investimenti costituisce l’anello di retroazione che chiude questo circolo vizioso. Infatti, il calo degli investimenti significa che la domanda aggregata dell’economia si ridurrà ulteriormente, e così la pressione al ribasso sui prezzi continua. L’economia quindi si ritrova intrappolata in un equilibrio deflazionistico in cui la caduta dei prezzi, la caduta dei salari e la riduzione degli investimenti si sostengono l’un l’altro. Il grafico qui sotto, tratto dalla introduzione di Kuroda, illustra come i prezzi giapponesi e i salari si sono mossi strettamente insieme e hanno sostenuto reciprocamente le loro tendenze deflazionistiche.
Lezione per “i principianti” della deflazione in Europa
Tutto questo suona familiarmente preoccupante per il dibattito qui nella zona Euro. Le imprese in Europa stanno reagendo alla mancanza di domanda e all’incapacità di imporre aumenti di prezzo anche moderati nello stesso modo delle imprese giapponesi. Esse sono profondamente convinte che i costi della manodopera debbano essere tagliati in modo da far diventare le imprese ancora più competitive e che, per farlo, ogni meccanismo di fissazione dei salari che ostacoli l’azienda nella direzione dei tagli salariali e tutte le disposizioni del diritto del lavoro che proteggono la stabilità del posto di lavoro stesso devono essere eliminate.
La differenza con il Giappone, tuttavia, è che i responsabili politici laggiù si sono resi conto che una tale agenda della competitività è una “strada senza uscita”. E che questa è ciò che Keynes chiamava una “fallacia di composizione”, in cui le decisioni che sembrano razionali dal punto di vista di una singola impresa sono semplicemente disastrose per l’economia nel suo complesso. Sorprendentemente, questa consapevolezza nei circoli dei politici giapponesi si estende anche alla sua Banca Centrale.
Questo, purtroppo, non è il caso della BCE. Mentre il discorso di Draghi a Jackson Hole sembra mostrare che la BCE si sta finalmente (!) accorgendo del pericolo che economia dell’Area Euro si posizioni vicino ad inflazione zero, non si sta per nulla afferrando il ruolo perverso che gioca la flessibilità del mercato del lavoro e dei salari in questo processo di deflazione. Invece di scorgere gli indizi giusti dalla vicenda del Giappone, riconoscendo che questo tipo di flessibilità rafforza ulteriormente il processo di deflazione e la depressione, il discorso di Draghi fa il contrario. In cambio di una vaga (!) promessa di allentare la politica monetaria, Draghi in realtà sta chiedendo una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, dando priorità ai contratti collettivi a livello aziendale al di sopra degli accordi di livello più alto [a livello nazionale, ndr], riducendo la protezione del lavoro.
Tutto questo suona familiarmente preoccupante per il dibattito qui nella zona Euro. Le imprese in Europa stanno reagendo alla mancanza di domanda e all’incapacità di imporre aumenti di prezzo anche moderati nello stesso modo delle imprese giapponesi. Esse sono profondamente convinte che i costi della manodopera debbano essere tagliati in modo da far diventare le imprese ancora più competitive e che, per farlo, ogni meccanismo di fissazione dei salari che ostacoli l’azienda nella direzione dei tagli salariali e tutte le disposizioni del diritto del lavoro che proteggono la stabilità del posto di lavoro stesso devono essere eliminate.
La differenza con il Giappone, tuttavia, è che i responsabili politici laggiù si sono resi conto che una tale agenda della competitività è una “strada senza uscita”. E che questa è ciò che Keynes chiamava una “fallacia di composizione”, in cui le decisioni che sembrano razionali dal punto di vista di una singola impresa sono semplicemente disastrose per l’economia nel suo complesso. Sorprendentemente, questa consapevolezza nei circoli dei politici giapponesi si estende anche alla sua Banca Centrale.
Questo, purtroppo, non è il caso della BCE. Mentre il discorso di Draghi a Jackson Hole sembra mostrare che la BCE si sta finalmente (!) accorgendo del pericolo che economia dell’Area Euro si posizioni vicino ad inflazione zero, non si sta per nulla afferrando il ruolo perverso che gioca la flessibilità del mercato del lavoro e dei salari in questo processo di deflazione. Invece di scorgere gli indizi giusti dalla vicenda del Giappone, riconoscendo che questo tipo di flessibilità rafforza ulteriormente il processo di deflazione e la depressione, il discorso di Draghi fa il contrario. In cambio di una vaga (!) promessa di allentare la politica monetaria, Draghi in realtà sta chiedendo una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, dando priorità ai contratti collettivi a livello aziendale al di sopra degli accordi di livello più alto [a livello nazionale, ndr], riducendo la protezione del lavoro.
Questo significa giocare col fuoco. Se il programma di flessibilità di Draghi sarà infatti perseguito, poi le stesse istituzioni che fungono da cuscinetto contro l’auto-rafforzamento del processo di deflazione saranno ulteriormente distrutte. Premendo per la deregolamentazione dei mercati del lavoro e dei loro meccanismi di determinazione dei salari, il Presidente della BCE finirà con lo scatenare lo spettro della deflazione sulla zona Euro invece di prevenirlo.
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