mercoledì 11 giugno 2014

Basta vecchi con tutti i privilegi e legati a un sindacato ormai di destra ed i giovani precari a vita e senza prospettive. In Italia lavorano solo i figli dei sindacalisti e i figli dei politici. Una vergogna nazionale uguale dal sud al nord.

Aziende, l’emergenza perenne che “uccide” i giovani

I nuovi trend: 30enni licenziati perché “anziani”, carichi di lavoro eccessivi, posizioni bloccate
(Scott Olson/Getty Images)

(Scott Olson/Getty Images)

  
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Questo articolo non ha dati. Ricerche sul tema non esistono ancora. Gli stessi sindacalisti che abbiamo sentito faticano a tenere il passo con i fatti che vogliamo raccontare. Quella che leggete è una raccolta di voci che racconta le “nuove frontiere” del mercato del lavoro. Sono racconti scelti tra sfoghi in cui ci siamo imbattuti quasi per caso ma sempre più frequentemente. Tanto spesso da far credere che dietro queste voci si nascondono, appunto, veri “trend”.
Abbiamo scelto di non riportare il nome dei ragazzi intervistati né delle aziende per cui lavorano, per evitare di mettere in difficoltà chi già è precario. Ai nostri lettori chiediamo un atto di fiducia nel lavoro giornalistico svolto. Le storie raccolte sono tutte reali e i virgolettati tutti autentici.
Sono le 10 di mattina davanti agli uffici di uno dei principali teatri milanesi. «No, non posso restare, mamma, finisce che mi ammalo di nuovo. Se qui dentro le cose non cambiano io me ne vado», dice nervosa una ragazza mentre parla al telefono, tutta raggomitolata sul muretto.
Eccone un’altra, viene da pensare.
Nel sesto anno dalla crisi economica non è solo chi non ha un lavoro a soffrire. Soffre, spesso, anche chi lo ha. Perché, per mantenerlo, deve accettare “i nuovi trend” del mercato del lavoro, chiamiamoli così. Sono fenomeni ancora sfuggenti alle statistiche, ma che coinvolgono settori disparati e ampie fasce di lavoratori, spesso i più deboli, spesso quei giovani che hanno da poco messo piede in azienda. Iniziano pieni di energia e voglia di fare. Li guida l’idea che «il sacrificio è necessario» (e non chiamateli bamboccioni), iniziano facendo nove, dieci, undici ore di lavoro, in testa il pensiero che qualche anno duro e precario li porterà alla conquista di un contratto migliore, di una vita migliore. Sono tentati dalla quotidiana voglia di lasciare tutto, ma non lo fanno mai. «Devi resistere», è la vocina che sentono dentro. Grillo parlante inopportuno, utile forse solo fino a qualche anno fa.
Perché presto, i giovani lavoratori di oggi si accorgono di essere finiti in una situazione di emergenza perenne, che funziona quasi sempre in questo modo: ai licenziamenti del personale interno o a posizioni che si liberano non segue più alcun rimpiazzo. Costosi lavoratori con contratto regolare vengono licenziati e sostituiti con finte partite Iva o collaboratori a progetto che siederanno alla stessa scrivania dei predecessori per svolgere lo stesso lavoro dipendente. Gli avanzamenti di carriera vengono bloccati per non dover aumentare gli stipendi. I trentenni lasciati a casa perché iniziano a maturare troppe anzianità.
Con il risultato che in azienda i carichi di lavoro aumentano, si riducono le prospettive di crescita professionale, si azzerano le speranze di accedere a un contratto regolare e meglio retribuito.
I giovani provano a resistere mentre gli orizzonti si restringono.
«E che altro dovrebbero fare se non resistere?», obietteranno i più volitivi tra voi. Ma c’è un dato che accomuna tutte le storie che raccontiamo: le aziende per cui questi giovani lavorano sono in attivo. E spesso con risultati non bassi. E allora delle due l’una. O l’attivo è fatto proprio grazie alla creazione di uno stato di emergenza perenne in deroga a tutte le norme sul lavoro. Oppure si approfitta della crisi - e dell’ampia disponibilità di offerta di lavoro - per fare margini più ampi. O perdere di meno.
Storia 1. La psoriasi
Alla fine dello scorso anno, il manager dell’area europea di una nota catena di palestre annunciava fiero «ricavi a doppia cifra», crescita costante dei profitti e progetti di espansione del gruppo.
In quella nota catena di palestre, Michela, ventisette anni, fa da qualche anno la receptionist.
Racconta che i tagli di personale, nell’ultimo anno, si sono fatti costanti. Il lavoro però non è diminuito. «Con la conseguenza che per riuscire a fare tutto, ci troviamo a fare anche straordinari non pagati», spiega. «Ovviamente nessuno ci chiede di restare più del tempo previsto. Ma se vedono che ci fermiamo per concludere qualcosa di necessario, non ci dicono certo di andare a casa».
Gli effetti? Stress ad altissimi livelli.
«Alla reception c’è gente che soffre di attacchi di panico. I tic nervosi sono sempre più frequenti. Io mi sono presa la psoriasi».
Lo sguardo di Michela spazia oltre la reception. «Negli altri reparti dell’azienda succede anche che i lavoratori con contratto regolare a tempo indeterminato vengano sostituiti con partite Iva o collaboratori esterni», racconta. «Ma ai nuovi viene poi chiesto di fare lo stesso lavoro dipendente di quelli di prima».
A conferma che quest’ultimo è un trend diffuso, Rosario Strazzullo, coordinatore nazionale Cgil per l’area contrattuale, segnala una recente sentenza del Tribunale di Roma. Due ragazze hanno fatto causa all’azienda che le aveva licenziate e sostituite con due partite Iva. La sentenza, emessa il 19 marzo 2014, recita così:

«Illegittimo “per insussistenza del fatto” il licenziamento per soppressione del posto di lavoro, se le mansioni del lavoratore licenziato siano state successivamente affidate ad altro collaboratore, formalmente autonomo, ma sostanzialmente anch’egli subordinato. In tal caso, la conseguenza deve essere la reintegrazione nel posto di lavoro».
Nella palestra di Michela accade anche che si faccia mobbing contro i lavoratori più anziani. «Dopo sei o sette anni che lavori qui, inizi ad avere troppe anzianità. E costi troppo all’azienda». Per questo chi è qui da tempo diventa scomodo. E bisogna “costringerlo a lasciare”. Ad esempio trasferendolo nella palestra più lontana possibile all’interno del raggio previsto dal contratto.
«E i nuovi che arrivano hanno contratti di m***a. Sono tutti uomini, gay e giovani, senza figli né maternità in vista». E con energia ancora da vendere, aggiungiamo noi.

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Storia 2. Vita irregolare da infermiera
Alessia, 29 anni, lavora come infermiera in un ospedale privato del milanese. Nell’ultimo bilancio sociale dell’ospedale disponibile online, si legge che l’utile 2012 ha raggiunto e superato i 200mila euro. Si riferisce anche di una situazione patrimoniale stabile e solida.
Eppure nel reparto di Alessia ci sono 19 infermiere a dividersi un lavoro che dovrebbero svolgere almeno 21 persone: le ultime due che se ne sono andate lo scorso autunno non sono state più rimpiazzate.
Alessia da più di un anno (ha iniziato a lavorare lì nel marzo 2013) fa doppi turni e racconta il meccanismo “emergenziale” creato dalla sua azienda per risparmiare sul personale: «Nel mio reparto ci sono 52 posti letto e 19 infermieri divisi in tre turni: mattino, pomeriggio e sera. Dobbiamo essere presenti in quattro per i turni di giorno, tre per quello di notte. La legge prevede che tra un turno e l’altro ci siano almeno otto ore di “stacco”. Ma per poter coprire tutte le ore, finisce che il turno della mattina 7-14 sia sempre legato a quello della notte, che inizia alle 21 e continua fino alle 7 della mattina successiva. Quindi le ore libere tra un turno e l’altro sono sette». Ma non è tutto. La legge prevede anche due norme precise: che dopo il turno notturno (di dieci ore) seguano due giorni di riposo e un rientro al terzo giorno con il turno pomeridiano. Ma né la prima né la seconda regola vengono rispettate. «Finisce sempre che facciamo un solo giorno di riposo dopo la notte e che il rientro sia casuale: possiamo iniziare la mattina, il pomeriggio oppure anche la notte, in base alle necessità», racconta Alessia. «Noi timbriamo all’inizio e alla fine di ogni turno, quindi l’infrazione delle regole è sotto gli occhi di tutti, ma la voce che gira nei corridoi è che l’azienda paga per questa infrazione una multa forfettaria alla regione Lombardia. Una multa che – unita agli straordinari pagati al personale - costa talmente poco da risultare più conveniente dell’assunzione di nuovi dipendenti in reparto».
«Ma la gente intanto qui si esaurisce», sbotta Alessia. «La resistenza di un’infermiera nel mio reparto è di pochi anni, nessuno va oltre i cinque, mi raccontano le colleghe».
La situazione, nel reparto di Alessia e negli altri, si aggrava quando qualcuna di loro si assenta per malattia, oppure in periodo di ferie. Perché non arrivano mai sostituti.

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Giovanni Muttillo, Presidente di Ipasvi di Milano Lodi (Collegio Interprovinciale degli Infermieri) conferma il racconto di Alessia. «Abbiamo ricevuto diverse segnalazioni da parte di colleghi infermieri iscritti al nostro ordine professionale. Si tratta di un fenomeno diffuso a macchia di leopardo in diverse strutture ospedaliere, sia pubbliche che private. Quello del benessere del personale infermieristico è un tema importante su cui il nostro ordine sta lavorando». Muttillo snocciola alcuni dati per far capire l’urgenza del tema: «In regione Lombardia abbiamo sei infermieri ogni mille abitanti. La media Ue è di nove. Non solo. L’età media dei lavoratori è di 46 anni. Non siamo più in condizioni di erogare assistenza ai pazienti in condizioni di sicurezza», spiega. Nelle strutture pubbliche, carenza di personale e invecchiamento sono fenomeni frutto delle ultime misure prese dagli ultimi governi, «dalla spending review del 2012 con il blocco del turn over, fino all’innalzamento dell’età pensionabile della Riforma Fornero». Ma le strutture private, come quella in cui lavora Alessia, «avrebbero più possibilità di manovra», conferma Muttillo. «La situazione di crisi economica viene usata da tali strutture in modo strumentale».   
Storia 3. La coda dallo psicologo aziendale
«L’infermiera del Cral (Circolo ricreativo assistenza lavoratori, ndr) non avrebbe dovuto dirlo, ma le è scappato. Dice che la gente che frequenta lo psicologo aziendale è aumentata. Sempre più persone soffrono di stress per il troppo lavoro. Ma la cosa più significativa è che la maggior parte di loro viene proprio dalla nostra società». Elena ha 28 anni e dallo scorso autunno lavora per una società di un grosso gruppo farmaceutico. Il suo ufficio è relativamente giovane, e vi lavorano in quattro. Lei è l’ultima arrivata, con un contratto interinale rinnovato dopo pochi mesi. Ma i carichi di lavoro sono tali che smaltire quel che c’è da fare in quattro è praticamente impossibile. Resta del lavoro a fine giornata e anche a fine settimana. Parla al telefono dopo aver provato a prendere il treno per il ritorno e averlo perso. Succede così quasi tutte le sere. Anche oggi è uscita un’ora dopo il previsto. «Ma ci sono persone che si fermano anche più di me». Straordinari persi, che nessuno le pagherà mai, visto che il contratto da interinale non lo prevede. «Ci sono clienti che ci chiamano dicendo di essere da due anni in attesa dei documenti chiesti». Quando le cose da fare sono troppe, molte sfuggono. 
La società però cresce, ed è cresciuta proprio negli ultimi cinque anni, quelli della crisi più nera. Tanto che il gruppo organizza anche sontuose feste per celebrare. Eppure i badge dei lavoratori non assunti - tutti interinali rinnovati per periodi di pochi mesi - sono quasi la metà del totale. «In coda alla macchinetta del caffé, su sette persone almeno quattro hanno un badge esterno, ben riconoscibile rispetto a quello dei dipendenti», racconta Elena. E così anche in mensa. I rapporti in ufficio sono tesissimi. «Basta un niente per far scattare una reazione sgarbata. Siamo tutti stressati e appena possibile chiunque cerca di scaricare anche la più semplice delle incombenze sui colleghi. Vicino al mio c’è un ufficio di sei persone. Quattro sono in maternità. Per sostituirle è stata presa una sola persona che viene a giorni alterni», racconta.  
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Storia 4. La rincorsa dei sindacati
I “trend” osservati nel settore privato non sfuggono nemmeno nel pubblico. Sergio Bologna, membro del consiglio direttivo di Acta, associazione di freelance, parla di un altro fenomeno critico, osservato supportando i molti lavoratori freelance che fanno consulenza esterna per la Pubblica amministrazione. Il problema, spiega, è nella assegnazione al ribasso degli appalti per consulenze esterne. Il prezzo riveste un ruolo ancora troppo rilevante. «Quando la P.A. mette a gara un servizio professionale anche complesso, che richiede la presenza di più professionisti, nei punteggi in base ai quali si assegna la gara, il prezzo ha un ruolo notevole. Per questo il ribasso sui costi è sempre una strategia vincente. È tipico del settore immobiliare, ma funziona anche per i servizi professionali, come i business plan, gli studi di mercato, i questionari giuridici appaltati all’esterno. Vince sempre chi offre il maggior ribasso». Un criterio lecito, ma che spesso comporta la svalutazione delle competenze e fenomeni simili a quelli visti nelle storie precedenti.
Bologna ci guida in un esempio verosimile: «Uno studio di ingegneria lavora con trenta professionisti. Vince un appalto pubblico grazie a un ribasso sul prezzo del 30 per cento. Un ribasso esagerato, che lo studio non può permettersi. Per rientrare nei costi, lo studio ricorre a un fenomeno sempre più frequente: a metà opera dichiara di non riuscire a portare a termine il lavoro con i costi previsti e chiede alla P.A. più soldi. Ma allo stesso tempo è costretto a rivalersi sui collaboratori. Se a un ingegnere doveva, mettiamo, dieci mila euro, dice: te ne posso dare solo cinque. Così nascono irregolarità e svalutazione delle competenze, un fenomeno che ad Acta registriamo sempre più frequentemente», spiega Bologna. «Per questo chiediamo che sia introdotto un limite ai ribassi sul prezzo, perché sono solo poche le amministrazioni scrupolose che di fronte ai ribassi si chiedono quanto davvero siano sostenibili».
«Il Paese ha deciso di competere con costi più bassi piuttosto che con l’innovazione», spiega Rosario Strazzullo, coordinazione nazionale Cgil. «Assistiamo a un ricorso patologico a forme di lavoro non tutelato, e al ricorso sempre più frequente ad appalti esterni e consulenze, al posto di dipendenti interni. Processi di appalti ed esternalizzazioni che rendono davvero difficile controllare il rispetto delle leggi», ammette.
Il mercato appare spaccato in due. «La parte di aziende che operano sul mercato interno vive una condizione di sofferenza che porta a ridurre le ore di lavoro dei dipendenti, e a diminuire il personale perché non c’è lavoro. La parte invece che opera sui mercati esteri, in qualsiasi campo, dal commercio alla farmaceutica, se la gioca con i contratti atipici: flessibilità, carichi di lavoro importanti sui dipendenti che restano...». Mosse che comportano forti perdite in tema di diritti: «C’è una vasta area di lavoratori atipici su cui cerchiamo di portare i diritti del Ccnl: malattia, maternità, assegni, ferie...»
Ma mentre i sindacati inseguono gli atipici, cercano di tenere traccia di quanto accade e lottano per difendere conquiste del passato sempre più sfumate, la coda dallo psicologo aziendale intanto si fa sempre più lunga.

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