GLI EFFETTI DEL TAPERING USA
Perché i Brics non sono un mondo finito
L’errore delle analisi estreme: prima gli Emergenti erano il bengodi, oggi economie da cui scappare
Viviamo in un mondo strano, in cui termini tecnici in inglese diventano improvvisamente di uso comune. In Italia da qualche anno è lo spread a essere oggetto di appassionate discussioni al bar. Altrove da qualche settimana non si parla che di tapering – la decisione presa dalla Federal Reserve lo scorso maggio e riaffermata successivamente di ridurre il programma di acquisto di obbligazioni.
Un cambio di strategia nella politica monetaria americana che rappresenta un segnale di fiducia nella capacità della principale economia mondiale di riprendere il suo sentiero di crescita senza bisogno di misure non-convenzionali di sostegno. Ma che sta mettendo molte economie emergenti sotto pressione: perdita di valore delle valute, fuga di capitali, risorgere di tensioni inflazionistiche. Il tutto in un momento in cui si moltiplicano le crisi politiche: Ucraina, Thailandia, Venezuela, Egitto, Turchia, Siria.
Nelle prime cinque settimane dell’anno gli outflows dai fondi azionari specializzati nei mercati emergenti ($18.6 miliardi) sono stati maggiori che le vendite nette in tutto il 2013 ($15.3 miliardi). Meno drammatiche, ma pur sempre negative, anche le notizie sul fronte dei fondi obbligazionari. Ad apparire particolarmente vulnerabili sono i paesi con un grande deficit delle partite correnti, che pertanto dipendono dalla disponibilità di capitali esteri. Se questi s’inaridiscono, vengono meno le risorse per credito, investimenti e consumo. Se le loro valute perdono valore rispetto al dollaro, diventa più difficile remunerare e rimborsare i fondi presi a prestito.
Sei paesi del G20 – Argentina, Brasile, India, Indonesia, Sudafrica e Turchia – sono in prima linea e nelle ultime settimane hanno adottato misure economiche per rassicurare in qualche modo i mercati. È un gruppo eterogeneo, ma decisamente importante per le sorti dell’economia globale, non fosse altro che perché pesano per circa un ottavo del PIL mondiale e hanno contributo per un quarto della sua crescita dal 2009.
ARGENTINA
Le criticità strutturali dell’Argentina sono le stesse ormai da decenni – istituzioni deboli, politiche erratiche, governanti populisti, cittadini che per molte buone ragioni sono i primi a non avere fiducia nel proprio paese e nella sua capacità di crescere in maniera “normale”. Ma i problemi attuali sono recenti, dato che per più di un decennio, dopo l’abbandono del currency board, l’economia argentina è cresciuta. I disequilibri e le incoerenze del cosiddetto modelo, le politiche economiche di Nestor e poi di Cristina Kirchner, sono esplose negli ultimi tempi. Soprattutto l’inflazione, che ha probabilmente superato 25% nel 2013 per quanto le autorità si siano a lungo ostinate a difendere l’indice ufficiale, secondo cui sarebbe stata “solamente” del 10,9%. Tutti i dati vanno presi con le pinze, a causa di questo scostamento, ma in ogni caso l’apparire di un mercato cambiario parallelo dimostra che tra la historia oficial e la realtà c’è una grande differenza.
Le autorità hanno a lungo accusato oscure forze internazionali di cospirare nell’ombra, limitandosi a moltiplicare le restrizioni, per esempio all’acquisto di prodotti su Amazon e soprattutto siti cinesi, e le multe ai supermercati. A gennaio hanno infine reagito al rapido esaurimento delle riserve (scese a meno di $30 miliardi), allentando all’improvviso i controlli ufficiali sulle transazioni in valuta e lasciando che il peso soffrisse il deprezzamento più ampio dal 2002 a oggi. In una concessione maggiore al Fondo monetario internazionale, che reclamava da tempo una metodologia più precisa, l’istituto di statistica ha divulgato un nuovo indice dei prezzi – che è aumentato del 3,7% nel primo mese dell’anno.
La preoccupazione è ovviamente che l’inflazione acceleri, in un paese in cui i meccanismi d’indicizzazione sono ancora diffusi e il valore di molte transazioni è in dollari. Che le tensioni sociali si radicalizzino, come lasciano presagire gli scioperi già annunciati per inizio marzo, in un paese in cui il dialogo tra governo, sindacati e industriali è sempre stato difficile. E che l’ordine pubblico venga meno, in un paese che si è a lungo considerato diverso dal resto del continente e deve fare i conti con l’esplosione della criminalità.
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BRASILE
Per il Brasile il quadro è più complesso. Certo l’inflazione è anche lì una preoccupazione, soprattutto perché obbliga la banca centrale a mantenere un approccio restrittivo (a fine febbraio il tasso d’interesse è aumentato a 10,75%). In compenso il dato sulla crescita del PIL per l’ultimo trimestre dell’anno ha superato le attese, consentendo al ministro dell’Economia di dichiararsi soddisfatto del risultato – 2,3% nel 2013, dopo l’anemico 1% del 2012. Niente di spettacolare rispetto alla Cina (7,7%), certo, ma molto meglio che il Messico (1,1%).
Uno sguardo più nel dettaglio mostra che non tutto va bene. Continua a trainare l’agricoltura, stagnano i servizi, crolla la produzione industriale (gennaio è stato un mese campale per l’automotive); vanno bene gli investimenti (anche perché le opere previste per la Coppa del Mondo vanno concluse rapidamente), tengono a malapena i consumi.
Sembrano dissipate invece le incertezze sulla situazione politica. Certo, il rischio di nuove proteste durante la grande kermesse del calcio è tutt’altro che dissipato. Ma le chances di rielezione di Dilma Roussef sono alte: secondo il sondaggio Datafolha del 22 febbraio, otterrebbe 47% dei voti (rispetto a 17% per Aécio Neves del PSDB e 12% per Eduardo Campos) e vincerebbe al primo turno.
TURCHIA
Anche in Turchia si vota presto, il 30 marzo. Elezioni municipali che Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro, intende però come un plebiscito nazionale sul suo governo, che da qualche mese è nell’occhio del ciclone.Dopo aver allontanato dalle loro funzioni vari ministri, accusati di corruzione, a fine dicembre, Erdogan è stato a sua volta raggiunto da sospetti. Registrazioni divulgate il 24 febbraio in cui il primo ministro e suo figlio sembrerebbero discutere di ingenti fondi di proprietà della famiglia, da nascondere agli investigatori.
Erdogan ha accusato Fethullah Gülen e la sua confraternita di essere all’origine di una campagna per screditarlo, così come ha visto lo zampino di oscure lobby dietro alle proteste del giugno 2013. Nel caso dei problemi economici è però più difficile parlare di un complotto. La crescita economica turca, pur in calo, rimane alta, ma l’inflazione è di molto superiore al target ufficiale e la reazione è stata lenta. Quando è venuta, a fine gennaio, è stata consistente nelle sue dimensioni – il tasso di sconto è stato portato da 4,5% a 10% – ma meno nei suoi effetti. (Leggi qui per approfondire il ruolo geopolitico di Ankara).
INDIA
Dove la situazione permane critica è in India: crescita bassa (non solo rispetto al recente passato e alla concorrenza, ma soprattutto ai valori che sarebbero opportuni per debellare la povertà); inflazione elevata (quasi 10%, quando la Reserve Bank of India ha proposto di introdurre un obiettivo del 4% per il 2016), soprattutto per generi alimentari di prima necessità; un policy mix insostenibile, in cui a una spesa quasi fuori controllo fa fronte una politica monetaria stringente (l’ultimo aumento del tasso, a fine gennaio, lo ha portato a 8%). New Delhi dispone di riserve a prima vista ampie ($296 miliardi), ma il deficit corrente è pur sempre di $61 miliardi.
Per la terza economia asiatica si annunciano tempi travagliati, tanto più che si continua a navigare a vista sul fronte politico. Malgrado le critiche che si abbattono sul Partito del Congresso, al potere dal 2009, e sulla famiglia Gandhi, il sostegno a Narendra Modi, candidato del Bharatiya Janata Party, non è ancora garantito. C’è timore per il radicalismo del movimento nazionalista induista, ma anche per l’agenda “thatcheriana” di Modi, che mal si concilia col fatto che i ceti medi indiani, spesso mitizzati, rimangono profondamente dipendenti dallo stato e dall’impiego pubblico.
INDONESIA
Sono recentissimi i tempi in cui si parlava dell’Indonesia come del prossimo BRIC – prima che la crescita nel più grande paese mussulmano al mondo decelerasse bruscamente al livello più basso degli ultimi quattro anni e il deficit commerciale peggiorasse. Nel 2013 il calo del valore della rupia, un quarto rispetto al dollaro, è stato il più ampio tra tutte le valute emergenti, e a poco è servito l’aumento dei tassi di 175 punti base di giugno.
La situazione sociale è tesa. L’anno scorso, la sacrosanta decisione di tagliare i sussidi a benzina e diesel, che alimentano il deficit fiscale e vanno nelle tasche della media borghesia e non dei più poveri, ha provocato scontri di strada a Giacarta. Quest’anno ci sono le elezioni – parlamentari ad aprile e presidenziali a luglio – e molti investimenti sono congelati. Se vincesse Joko Widodo, il giovane governatore della capitale, sono in molti a scommettere che le cose miglioreranno. Nel frattempo l’unico segnale positivo è che le spese connesse alle elezioni stesse dovrebbero permettere al PIL di crescere del 5,8% nel 2014, come l’anno scorso.
SUDAFRICA
Infine il Sudafrica, che almeno politicamentel’ingresso nell’esclusivo club dei BRIC l’ha compiuto. Per la moneta del più grande stato africano sono tempi difficili, eppure l’annuncio a fine gennaio di alzare i tassi (da 5% a 5,5%) ha colto di sorpresa i mercati. La difesa del rand, la cui debolezza è legata anche ai rischi per la crescita cinese e agli scioperi che bloccano periodicamente le miniere sudafricane di platino e altri metalli, rischia infatti di complicare le prospettive di crescita.
Nel 2014, secondo la banca centrale, il PIL dovrebbe crescere del 2,8%, molto meglio che nel 2013 ma non necessariamente abbastanza per permettere all’African National Congress di vincere elezioni previste in un momento ancora indeterminato ma non lontano. Non a caso le critiche più accese alla decisione sono venute dal Congress of South African Trade Unions, uno dei tre componenti dell’alleanza al governo.
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Andrea Goldstein
Di fronte a tanti rischi, la linea sostenuta a Washington è che una ripresa solida dell’economia americana sia la miglior ricetta per sostenere la crescita nei paesi emergenti. Per essere più chiari, Janet Yellen, la nuova presidente della Fed, ha affermato l’11 febbraio di fronte al Congresso che la volatilità nei mercati emergenti non crea alcun rischio significativo per le prospettive economiche americane. Per niente d’accordo con questo approccio sono però molti policy-makers del Sud. Il banchiere centrale indiano Raghuram Rajan, in particolare, ha chiesto che la cooperazione tra paesi industrializzati ed economie emergenti sia rafforzata e che le decisioni di ciascuno prendano in dovuta considerazione le implicazioni per gli altri, e non solo le circostanze nazionali.
In ogni caso, sono i mercati stessi a farsi carico di stabilire una qualche equità. Come si suol dire, “what goes around, comes around” – e le tensioni negli emergenti (oltre che gli interrogativi sulla Cina, che hanno natura certo differente ma che non sono meno importanti) si ripercuotono necessariamente a Wall Street e altrove. La performance degli indici azionari non è brillante e i risultati del quarto trimestre per Corporate America sono anch’essi abbastanza deludenti. Soffrono le filiali nei mercati emergenti e diminuiscono i controvalori in dollari dei profitti in valuta locale.
Quante preoccupazioni è legittimo avere, allora? Rispetto alla crisi messicana del 1994, a quella asiatica del 1997, o a quella russa del 1998, molto è cambiato nei mercati emergenti. Le riserve sono più abbondanti, i deficit, anche fiscali, sono meno consistenti, quasi nessun paese ha tassi di cambio fissi; in più è stata sviluppata la regolamentazione macro-prudenziale, che permette di meglio anticipare i rischi alla stabilità finanziaria. Il che non toglie che l’esposizione in valuta sia importante; molte società private nei paesi emergenti si sono indebitate negli ultimi anni di finanza allegra e Quantitative Easing e rischiano di affondare il settore bancario.
Non è però in pochi mesi che le tendenze di lungo periodo apparse nell’ultimo decennio possono svanire. Si può discutere senza fine di quanto ricchi siano i nuovi ceti medi – spesso le definizioni sembrano fatte apposta per gonfiarne gli effettivi – è certo che nel mondo emergente la domanda per servizi, beni, infrastrutture è destinata a crescere ancora. È vero per le grandi opere, come l’alta velocità ferroviaria o gli aeroporti (a Istanbul per esempio se ne sta progettando uno capace di accogliere 150 milioni di passeggeri). Ma vale anche per la creazione o lo sviluppo di gigantesche reti di fornitura di servizi pubblici, dall’acqua alle protezione sociale, dalla salute all’istruzione.
Attenzione insomma a passare da un estremo all’altro, da una narrazione degli emergenti come ormai pronti a sostituirsi all’Occidente nel controllo del mondo, a un altrettanto ingenuo BRIC bashing che potrebbe far perdere molte opportunità. Anche perché è proprio andando controcorrente che si possono conquistare guadagni inaspettati.
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