INCHIESTA
Fermate l'esodo dei laureati migliori
Ogni anno in cinquemila lasciano l'Italia, già assunti da aziende straniere. Sono ingegneri, medici, economisti e traduttori. Costati allo Stato 175 milioni di euro. Ecco la nuova emergenza
di Francesca Sironi
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Cinquemila laureati, di quelli con i voti più alti, che non si perdono una lezione e finiscono in tempo gli esami, di quelli bravi, insomma, se ne vanno ogni anno dall’Italia con un contratto di lavoro già firmato in mano. Un pezzo di carta prezioso che in patria impiegherebbero anni a conquistare e che comunque riconoscerebbe loro uno stipendio molto più basso di quanto le imprese americane, inglesi, tedesche o cinesi sono pronte a sborsare. Noi li formiamo, spendendo la rispettabile cifra di 34.950 euro per ciascuno. E loro li assumono.
Questo export di cervelli e competenze - a partire sono ingegneri, economisti, persino medici - ha un doppio costo. C’è il capitale umano che se ne va, portandosi dietro l’ossatura dello sviluppo del Paese. E c’è la spesa dello Stato per la loro istruzione: più di tremila euro a semestre per universitario, e visto che questi talenti hanno frequentato corsi per cinque anni, perderli significa dire addio a un investimento complessivo di 175 milioni di euro.
Sono i numeri ingombranti del sequel di una storia che pensavamo ormai di conoscere, quella dell’arcinota “fuga dei cervelli”. Il blockbuster degli scienziati eccellenti costretti ad attraversare l’oceano per una carriera accademica si è trasformato infatti in un colossal che riguarda intere classi di ex studenti, migliaia di venticinquenni da 110 e lode che si trasferiscono altrove ad impiegare le loro conoscenze. I supertalentuosi che esportiamo in Gran Bretagna o a Berlino non andranno a fare gli inventori come i cervelli in fuga ma nemmeno i baristi come gli emigrati spinti dalla disoccupazione. Sono stati chiamati semplicemente perché ottimi progettisti hi-tech, economisti, medici, matematici, sviluppatori, tecnici delle relazioni internazionali e di gestione delle risorse. Insomma: esperti nelle materie che servono per assicurare profitti a un’azienda. Ma anche per far crescere un Paese. Che non sarà il nostro.
PROFESSIONISTI IN VENDITA
Eccoli dunque i protagonisti del sequel. Hanno venticinque anni, una laurea specialistica in ingegneria o in economia, ma anche in lingue e letterature comparate e in materie politico-sociali. Ottimi voti, grandi aspettative, un inglese padroneggiato con nonchalance. E una marcia in più, come spiega Tommaso Dalla Massara, docente di Diritto romano e delegato all’orientamento dell’università di Verona: «A chiederci opportunità per fuggire sono i più ambiziosi, i più capaci. Anche qui nel Nord Est, ormai, dove potrebbero trovare le stesse occasioni?».
Perché espatrino è chiaro: lo stipendio medio, all’estero, è quasi il doppio di quello che potrebbero avere in Italia. «Ma non è solamente una questione di soldi»: almeno non lo è per Lorenzo Raffaelli, 30 anni, assunto nel 2008 dal gigante dei motori aeronautici Rolls-Royce. «Qui la carriera è assicurata. Ai giovani danno credito e responsabilità.Avevo ricevuto offerte a Firenze, dove ho studiato. Ma erano per mansioni di secondo piano, con contratti a progetto, senza garanzie. Mi consideravano troppo giovane per entrare in azienda». Quando è stato preso lui, in Rolls-Royce, gli italiani impiegati nella sede centrale di Derby erano quattro. Dal 2012 gli arrivi superano i 20 all’anno. E Raffaelli è diventato una sorta di ambasciatore della società: coordina un gruppo di talent-scout che vanno negli atenei più prestigiosi del mondo a caccia dei migliori studenti. «Offriamo assunzioni a tempo indeterminato, tirocini pagati 27mila sterline, oppure stage retribuiti per chi deve ancora frequentare i corsi». E a ogni presentazione si fanno avanti centinaia di candidati.
I NUMERI DELL'ESODO
Con queste premesse non stupisce che le statistiche siano spietate, a guardarle da Roma.Il sette per cento degli universitari che trovano impiego a un anno dalla laurea, è fuori dal Paese. Un quarto degli economisti sfornati dalla Bocconi nel 2013, oggi è assunto a Parigi, a Shangai, a New York. Cinque anni fa era meno del 15 per cento. Metà degli ex studenti di finanza a Verona ha già firmato un contratto in inglese. Su “Eures”, il portale dell’Unione Europea per gli annunci di lavoro, in questo momento sono presenti con il loro curriculum più di 190mila connazionali che sperano di andarsene, oltre il doppio di portoghesi, romeni e polacchi. E nel 2012, fotografa l’Istat, più di 14mila laureati hanno spostato la loro residenza al di là dalle frontiere, alla ricerca di quel futuro già agganciato dai cinquemila rampolli che secondo l’ultimo rapporto di Almalaurea, il consorzio di 64 atenei che certifica i dati sull’occupazione dei laureati, vengono assunti ogni estate dalle aziende straniere.
Ad aspettarli non ci sono solo turbine o computer. Ma anche bisturi, guanti e cuffiette: pure i nostri medici, infatti, abbandonano sempre più spesso l’Italia per andare a curare i malati di altri Paesi. Formare un camice bianco costa, e tanto: agli anni di università si devono aggungere quelli della specializzazione durante i quali i ragazzi fanno la gavetta in corsia, ricevendo uno stipendio mentre imparano il mestiere. Per i direttori degli ospedali europei, americani o asiatici, i nostri neodottori, invece, sono “gratis”, sostiene Amedeo Bianco, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici. Che non si stupisce dell’aumento di lasciapassare richiesti dagli specialisti per operare nel resto d’Europa: «L’80 per cento dei dottori è assunto dal Servizio sanitario nazionale, oggi travolto da tagli e riduzioni. I giovani si trovano così ad aver studiato undici anni per entrare in un mercato di incertezze. È insostenibile. Per questo vanno all’estero. E noi non solo perdiamo le loro capacità, ma anche gli investimenti sostenuti dalle famiglie e dallo Stato per garantire loro la migliore preparazione: ad avvalersene saranno altri governi. Ben contenti di accoglierli, anche perché avranno medici eccellenti senza aver speso un euro in formazione».
ADDIO SVILUPPO
«Stiamo perdendo il nostro capitale umano meglio formato», commenta il presidente di Almalaurea, Andrea Cammelli: «Quel sette per cento di occupati all’estero è molto concentrato in alcune discipline, soprattutto quelle scientifiche. Ragazzi con la media del 30 che in Italia non trovano spazio». L’intera classe dirigente di dopodomani finisce così acquartierata al di là delle Alpi. Lì fanno carriera, portano idee, creano sviluppo.
«È da un pezzo che esportiamo laureati, ma adesso la fuga è diventata una valanga: in patria ci sono troppo poche opportunità per i giovani ambiziosi», commenta Giovanni Peri, professore (italiano) di Economia del lavoro a Davis, in California, oltre che autore di numerosi saggi sul tema. Eppure queste persone sono motori di crescita economica e scientifica, «forze di cui adesso beneficiano altre nazioni. Negli States, in cui vivo da venti anni, il 30 per cento degli scienziati e degli ingegneri viene da fuori. È un ciclo virtuoso: più cervelli, più imprese, più ricerca, più produttività. Ecco: in Italia rischiamo la tendenza inversa», conclude lo studioso.
SHOPPING IN ITALY
A favorire l’export di laureati sono, però, gli stessi atenei. Che nell’internazionalizzazione vedono l’unica possibilità per offrire carte allettanti ai loro studenti e conquistare nuove leve.«Le università sono in concorrenza tra di loro», spiega Marco Taisch, docente di Ingegneria al Politecnico di Milano e direttore dell’ufficio per l’occupazione: «Se vogliamo garantire un futuro ai nostri allievi dobbiamo avere una rete globale di società pronte ad assumerli». Per intercettarle Taisch ha creato una task force di 12 persone, che hanno l’obiettivo di convincere multinazionali e industriali dell’eccellenza degli ingegneri made in Italy. Una strategia che sta funzionando: sul portale della facoltà le offerte pubblicate dall’estero sono passate da 371 a più di 800 in tre anni, arrivando al 10 per cento del totale.
Perché? I nostri laureati piacciono, dicono le aziende, perché hanno una solida preparazione teorica e perché vedono in Parigi, Londra o Pechino il milieu giusto per riuscire ad emergere. Piacciono, racconta Patrizia Cangialosi, direttore del centro di reclutamento dall’Europa della multinazionale Procter & Gamble, «perché sono motivati. C’è stato un vero salto di qualità negli ultimi cinque anni. Prima facevamo fatica a trovare ragazzi disponibili anche solo a trasferirsi da Milano a Roma. Adesso, secondo l’ultimo sondaggio di una società di ricerca a cui ci affidiamo, Universum, fra le prime tre caratteristiche del “lavoro ideale” per gli italiani c’è la possibilità di una carriera internazionale. Sono gli unici a darle tutta questa importanza». Risultato? Nel 2013 il gigante statunitense ha ricevuto dall’Italia 20 mila candidature. Sessantacinque sono andate a buon fine. E solo dall’inizio dell’anno altri dieci bocconiani sono entrati nel gruppo.
FERMARE L'EMORRAGIA
Resta comunque un interrogativo: siamo sicuri che la fuga dei migliori sia una perdita secca? «Per me che sono stato loro docente l’idea che trovino successo altrove non è affatto una sconfitta», controbatte Dalla Massara: «Anzi: è una vittoria. Anche se fuori, hanno imbroccato la loro strada. Ed è questo il nostro obiettivo». Come a dire: è un bene essere capaci di formare professionisti che le imprese migliori nel mondo si contendeono. Ed è l’inevitabile corollario di mobilità e globalizzazione, i marcatori della modernità. Ma per sfruttarli il Paese deve essere certo innanzitutto che molti degli espatriati rientrino. «Alcuni lo faranno, arricchiti di abilità e di competenze, e questo è un valore», sostiene Giovanni Peri, da Davis,: «Altri aiuteranno a stabilire rapporti tra le imprese italiane e le città cinesi o americane dove hanno trovato fortuna. È possibile, ma non è certo che accada».
L’unica soluzione certa sarebbe quella di aprire le frontiere. A Verona, racconta Dalla Massara, molti fra i suoi migliori studenti di diritto romano sono albanesi. E commenta il professore: «La nostra speranza è proprio questa: attrarre talenti dall’estero, farli venire a studiare nelle nostre università». E poi riuscire a tenerli, aggiunge Taisch dalla sede di Bovisa del Politecnico di Milano: «Dovremmo portarli all’interno delle nostre aziende, dei nostri ospedali». Ma per questa terza puntata, dicono gli esperti, ci sarà ancora molto da attendere (vedi intervista ad Andrea SIroni). Ed è lo stesso professore milanese a crederci poco, quando ripensa a quel suo brillante studente turco, 110 lode, ambito da diverse aziende lombarde. Che è dovuto tornare a Istanbul: per la Questura di Milano era un immigrato, punto e basta.
Questo export di cervelli e competenze - a partire sono ingegneri, economisti, persino medici - ha un doppio costo. C’è il capitale umano che se ne va, portandosi dietro l’ossatura dello sviluppo del Paese. E c’è la spesa dello Stato per la loro istruzione: più di tremila euro a semestre per universitario, e visto che questi talenti hanno frequentato corsi per cinque anni, perderli significa dire addio a un investimento complessivo di 175 milioni di euro.
Sono i numeri ingombranti del sequel di una storia che pensavamo ormai di conoscere, quella dell’arcinota “fuga dei cervelli”. Il blockbuster degli scienziati eccellenti costretti ad attraversare l’oceano per una carriera accademica si è trasformato infatti in un colossal che riguarda intere classi di ex studenti, migliaia di venticinquenni da 110 e lode che si trasferiscono altrove ad impiegare le loro conoscenze. I supertalentuosi che esportiamo in Gran Bretagna o a Berlino non andranno a fare gli inventori come i cervelli in fuga ma nemmeno i baristi come gli emigrati spinti dalla disoccupazione. Sono stati chiamati semplicemente perché ottimi progettisti hi-tech, economisti, medici, matematici, sviluppatori, tecnici delle relazioni internazionali e di gestione delle risorse. Insomma: esperti nelle materie che servono per assicurare profitti a un’azienda. Ma anche per far crescere un Paese. Che non sarà il nostro.
PROFESSIONISTI IN VENDITA
Eccoli dunque i protagonisti del sequel. Hanno venticinque anni, una laurea specialistica in ingegneria o in economia, ma anche in lingue e letterature comparate e in materie politico-sociali. Ottimi voti, grandi aspettative, un inglese padroneggiato con nonchalance. E una marcia in più, come spiega Tommaso Dalla Massara, docente di Diritto romano e delegato all’orientamento dell’università di Verona: «A chiederci opportunità per fuggire sono i più ambiziosi, i più capaci. Anche qui nel Nord Est, ormai, dove potrebbero trovare le stesse occasioni?».
Perché espatrino è chiaro: lo stipendio medio, all’estero, è quasi il doppio di quello che potrebbero avere in Italia. «Ma non è solamente una questione di soldi»: almeno non lo è per Lorenzo Raffaelli, 30 anni, assunto nel 2008 dal gigante dei motori aeronautici Rolls-Royce. «Qui la carriera è assicurata. Ai giovani danno credito e responsabilità.Avevo ricevuto offerte a Firenze, dove ho studiato. Ma erano per mansioni di secondo piano, con contratti a progetto, senza garanzie. Mi consideravano troppo giovane per entrare in azienda». Quando è stato preso lui, in Rolls-Royce, gli italiani impiegati nella sede centrale di Derby erano quattro. Dal 2012 gli arrivi superano i 20 all’anno. E Raffaelli è diventato una sorta di ambasciatore della società: coordina un gruppo di talent-scout che vanno negli atenei più prestigiosi del mondo a caccia dei migliori studenti. «Offriamo assunzioni a tempo indeterminato, tirocini pagati 27mila sterline, oppure stage retribuiti per chi deve ancora frequentare i corsi». E a ogni presentazione si fanno avanti centinaia di candidati.
I NUMERI DELL'ESODO
Con queste premesse non stupisce che le statistiche siano spietate, a guardarle da Roma.Il sette per cento degli universitari che trovano impiego a un anno dalla laurea, è fuori dal Paese. Un quarto degli economisti sfornati dalla Bocconi nel 2013, oggi è assunto a Parigi, a Shangai, a New York. Cinque anni fa era meno del 15 per cento. Metà degli ex studenti di finanza a Verona ha già firmato un contratto in inglese. Su “Eures”, il portale dell’Unione Europea per gli annunci di lavoro, in questo momento sono presenti con il loro curriculum più di 190mila connazionali che sperano di andarsene, oltre il doppio di portoghesi, romeni e polacchi. E nel 2012, fotografa l’Istat, più di 14mila laureati hanno spostato la loro residenza al di là dalle frontiere, alla ricerca di quel futuro già agganciato dai cinquemila rampolli che secondo l’ultimo rapporto di Almalaurea, il consorzio di 64 atenei che certifica i dati sull’occupazione dei laureati, vengono assunti ogni estate dalle aziende straniere.
Ad aspettarli non ci sono solo turbine o computer. Ma anche bisturi, guanti e cuffiette: pure i nostri medici, infatti, abbandonano sempre più spesso l’Italia per andare a curare i malati di altri Paesi. Formare un camice bianco costa, e tanto: agli anni di università si devono aggungere quelli della specializzazione durante i quali i ragazzi fanno la gavetta in corsia, ricevendo uno stipendio mentre imparano il mestiere. Per i direttori degli ospedali europei, americani o asiatici, i nostri neodottori, invece, sono “gratis”, sostiene Amedeo Bianco, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici. Che non si stupisce dell’aumento di lasciapassare richiesti dagli specialisti per operare nel resto d’Europa: «L’80 per cento dei dottori è assunto dal Servizio sanitario nazionale, oggi travolto da tagli e riduzioni. I giovani si trovano così ad aver studiato undici anni per entrare in un mercato di incertezze. È insostenibile. Per questo vanno all’estero. E noi non solo perdiamo le loro capacità, ma anche gli investimenti sostenuti dalle famiglie e dallo Stato per garantire loro la migliore preparazione: ad avvalersene saranno altri governi. Ben contenti di accoglierli, anche perché avranno medici eccellenti senza aver speso un euro in formazione».
ADDIO SVILUPPO
«Stiamo perdendo il nostro capitale umano meglio formato», commenta il presidente di Almalaurea, Andrea Cammelli: «Quel sette per cento di occupati all’estero è molto concentrato in alcune discipline, soprattutto quelle scientifiche. Ragazzi con la media del 30 che in Italia non trovano spazio». L’intera classe dirigente di dopodomani finisce così acquartierata al di là delle Alpi. Lì fanno carriera, portano idee, creano sviluppo.
«È da un pezzo che esportiamo laureati, ma adesso la fuga è diventata una valanga: in patria ci sono troppo poche opportunità per i giovani ambiziosi», commenta Giovanni Peri, professore (italiano) di Economia del lavoro a Davis, in California, oltre che autore di numerosi saggi sul tema. Eppure queste persone sono motori di crescita economica e scientifica, «forze di cui adesso beneficiano altre nazioni. Negli States, in cui vivo da venti anni, il 30 per cento degli scienziati e degli ingegneri viene da fuori. È un ciclo virtuoso: più cervelli, più imprese, più ricerca, più produttività. Ecco: in Italia rischiamo la tendenza inversa», conclude lo studioso.
SHOPPING IN ITALY
A favorire l’export di laureati sono, però, gli stessi atenei. Che nell’internazionalizzazione vedono l’unica possibilità per offrire carte allettanti ai loro studenti e conquistare nuove leve.«Le università sono in concorrenza tra di loro», spiega Marco Taisch, docente di Ingegneria al Politecnico di Milano e direttore dell’ufficio per l’occupazione: «Se vogliamo garantire un futuro ai nostri allievi dobbiamo avere una rete globale di società pronte ad assumerli». Per intercettarle Taisch ha creato una task force di 12 persone, che hanno l’obiettivo di convincere multinazionali e industriali dell’eccellenza degli ingegneri made in Italy. Una strategia che sta funzionando: sul portale della facoltà le offerte pubblicate dall’estero sono passate da 371 a più di 800 in tre anni, arrivando al 10 per cento del totale.
Perché? I nostri laureati piacciono, dicono le aziende, perché hanno una solida preparazione teorica e perché vedono in Parigi, Londra o Pechino il milieu giusto per riuscire ad emergere. Piacciono, racconta Patrizia Cangialosi, direttore del centro di reclutamento dall’Europa della multinazionale Procter & Gamble, «perché sono motivati. C’è stato un vero salto di qualità negli ultimi cinque anni. Prima facevamo fatica a trovare ragazzi disponibili anche solo a trasferirsi da Milano a Roma. Adesso, secondo l’ultimo sondaggio di una società di ricerca a cui ci affidiamo, Universum, fra le prime tre caratteristiche del “lavoro ideale” per gli italiani c’è la possibilità di una carriera internazionale. Sono gli unici a darle tutta questa importanza». Risultato? Nel 2013 il gigante statunitense ha ricevuto dall’Italia 20 mila candidature. Sessantacinque sono andate a buon fine. E solo dall’inizio dell’anno altri dieci bocconiani sono entrati nel gruppo.
FERMARE L'EMORRAGIA
Resta comunque un interrogativo: siamo sicuri che la fuga dei migliori sia una perdita secca? «Per me che sono stato loro docente l’idea che trovino successo altrove non è affatto una sconfitta», controbatte Dalla Massara: «Anzi: è una vittoria. Anche se fuori, hanno imbroccato la loro strada. Ed è questo il nostro obiettivo». Come a dire: è un bene essere capaci di formare professionisti che le imprese migliori nel mondo si contendeono. Ed è l’inevitabile corollario di mobilità e globalizzazione, i marcatori della modernità. Ma per sfruttarli il Paese deve essere certo innanzitutto che molti degli espatriati rientrino. «Alcuni lo faranno, arricchiti di abilità e di competenze, e questo è un valore», sostiene Giovanni Peri, da Davis,: «Altri aiuteranno a stabilire rapporti tra le imprese italiane e le città cinesi o americane dove hanno trovato fortuna. È possibile, ma non è certo che accada».
L’unica soluzione certa sarebbe quella di aprire le frontiere. A Verona, racconta Dalla Massara, molti fra i suoi migliori studenti di diritto romano sono albanesi. E commenta il professore: «La nostra speranza è proprio questa: attrarre talenti dall’estero, farli venire a studiare nelle nostre università». E poi riuscire a tenerli, aggiunge Taisch dalla sede di Bovisa del Politecnico di Milano: «Dovremmo portarli all’interno delle nostre aziende, dei nostri ospedali». Ma per questa terza puntata, dicono gli esperti, ci sarà ancora molto da attendere (vedi intervista ad Andrea SIroni). Ed è lo stesso professore milanese a crederci poco, quando ripensa a quel suo brillante studente turco, 110 lode, ambito da diverse aziende lombarde. Che è dovuto tornare a Istanbul: per la Questura di Milano era un immigrato, punto e basta.
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