Una luce in fondo al tunnel della formazione del governo: Romano Prodi. Matteo Renzi incassa l’assist del professore sulla conquista di Palazzo Chigi. Gli arriva a sera, alla fine di un’altra giornata frenetica passata nel ‘bunker’ di Palazzo Vecchio con i suoi a tenere contatti continui con Roma, a sentire gli alleati, i probabili ministri, le richieste – tante – di un posto in squadra. Prodi parla in un’intervista a Ballarò diffusa dalle agenzie di stampa e sottolinea che Renzi “è un cambiamento. Lo guardo con molta attenzione, con molta curiosità. Gli faccio tanti auguri, ecco”. E’ l’ok che a Renzi serviva come il pane, il cannone che può silenziare le rivolte interne della minoranza Pd - pronta a presentargli un documento con richieste precise sul programma - e dei civatiani, che minacciano di non votargli la fiducia al Senato. Prodi, che non è assolutamente in lizza per un posto da ministro (a dispetto di voci che si sono diffuse in serata), è l’arma che, per Renzi, depotenzia le critiche dei Dem, di fatto impossibilitati a parlare contro il professore dopo averlo affondato nella corsa al Colle a colpi di 101 franchi tiratori.
"Mi sento più curioso, più attento e c'è anche un'attesa, ecco. Un'attesa. La tranquillità è un'altra cosa. Viene dopo che si sono sperimentate le cose", è il ragionamento di Prodi, che ultimamente non ha nascosto le critiche a Letta, dandogli di fatto la spallata finale, insieme con il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. "C'è bisogno di avere il senso della velocità con cui le cose vanno nel mondo, che noi non abbiamo”, continua il professore. E ancora: “Decidere è uguale a responsabilità del singolo”. Ora, da tempo girano voci su una futura nuova corsa del professore per il Colle, soprattutto se – come sembra – Giorgio Napolitano dovesse dimettersi dopo la nascita del governo Renzi. Prodi ha smentito, ma al di là di tutto, le sue parole sono per il futuro premier più di un endorsement perché cadono nel momento in cui su Matteo piove il massimo delle accuse di decisionismo, ambizione, leaderismo e più ne ha più ne metta.
Prodi ottimo viatico, ma non risolve ancora tutti i problemi che di fatto stanno allontanando la nascita del governo Renzi. Probabilmente il segretario del Pd riceverà l’incarico da Giorgio Napolitano lunedì, ma il suo esecutivo non presterà giuramento al Quirinale prima di mercoledì o addirittura giovedì. Sono queste le previsioni dei suoi, alle prese con squadra e programma come lui, chiusi in quel bunker di Palazzo Vecchio preso d’assedio da critiche e richieste, bunker dal quale esce in serata perché per nulla al mondo si perderebbe la Fiorentina allo stadio. “Li gestisco tutti”, assicura Renzi ai collaboratori, mentre riceve ministri papabili, come l’imprenditore Andrea Guerra di Luxottica e lo scrittore Alessandro Baricco, che però precisa: “Collaborerò, non sarò ministro”. Domani, probabilmente, il segretario farà rotta su Roma, forse incontrerà Angelino Alfano. Perché nella trattativa con Ncd sta uno dei nodi più grossi per la nascita del governo. Maurizio Lupi e Beatrice Lorenzin dovrebbero restare rispettivamente al ministero dei Trasporti e Sanità, gli stessi che guidavano nell’era Letta. Il problema è Alfano, che ha accettato di perdere il ruolo di vicepremier (Renzi non vuole vice), ma non vuole mollare gli Interni e se li contende con Dario Franceschini. Altro nodo abbastanza collegato a quello sul Viminale è la Giustizia, dicastero pesante e ghiotto: in calo le quotazioni del vicepresidente del Csm, Michele Vietti. E poi c’è l’Economia, vero scoglio della formazione di questo governo fin dall’inizio.
Perché l’idea è di affidare il Tesoro a un politico, magari affiancato da sherpa e sottosegretari tecnici. C’è chi mette in giro la voce di Prodi al ministero di via XX Settembre, ma è un rumor che non sta in piedi: per Renzi non è un’opzione e non lo è nemmeno per il Professore. Sulla squadra di governo i renziani della fascia più stretta continuano a non escludere sorprese: “I colpi di scena sono pane quotidiano per Matteo”. Il quale dovrà comunque misurarsi anche con il caos scoppiato nel Pd, innervosito dalle voci su un presunto accordo tra Forza Italia e Renzi per un sostegno di voti in Senato. Il renziano Lorenzo Guerini smentisce. La verità sta nel fatto che a Palazzo Madama il segretario sente di poter fare affidamento nel gruppo del Gal, nati da una costola di Forza Italia l’anno scorso. Il nervosismo nel Pd rimane. Tanto che la minoranza, l’area Cuperlo, ha deciso di presentare un documento per marcare l’azione del governo con “contenuti di sinistra”. I titoli: politiche europee, welfare, lavoro, scuola, occupazione, investimenti, ambiente e cultura. E’ la risposta Pd ad Alfano che invece chiede di delimitare l’azione del governo “con contenuti non di sinistra”.
Renzi stretto tra due o più fuochi. Ma in realtà ha già pensato come non far saltare in aria tutto, una volta fatto il governo. Il suo Italicum sparirà dai radar parlamentari per un po’, slitta in fondo, dopo la riforma costituzionale di abolizione del Senato. Una decisione che risponde all’esigenza di lasciare stabilizzare la legislatura: “Se ci rimettiamo a discutere di legge elettorale rischiamo di far deragliare il treno della maggioranza non appena battezzato il governo. E poi il paese si aspetta altro, una risposta alla crisi”, spiega il renziano Angelo Rughetti che sta lavorando sul programma del governo Renzi. Priorità, quindi? Lavoro e Jobs act. Sarà al primo punto dell’agenda, subito dopo la prima fiducia del Parlamento.