Renzi chiama, i dissidenti M5S sono troppo depressi e divisi per rispondere
Quindici deputati e venti senatori compongono una fronda interna dalla quale, però, saranno in pochi a lasciare il Movimento: troppo ampie le differenze, troppo in crescita i sondaggi che premiano la linea di chiusura totale
Alla fine della fiera è tutta una questione di fiducia. C’è quella ipotetica da votare a un ancora più ipotetico governo Renzi. Tema caldo e coinvolgente che anima le chiacchiere informali e gli scambi di messaggi tra i parlamentari Cinquestelle in rotta con la linea ufficiale del Movimento. Non che i dissidenti si siano coinvolti da soli. È stata una settimana di contatti ravvicinati, di battute che si fanno discorso, di pause caffè che si allungano fino all’aperitivo tra deputati e senatori Pd di rito renziano ortodosso e colleghi M5S in preda da mesi ai mal di pancia.
Poi c’è una questione di fiducia più profonda, tutta interna alla complessa e disorganica composizione della fronda interna. Le differenze e le diffidenze reciproche sono tante e il cemento della comune opposizione alla linea di chiusura netta scelta dal Movimento non è ancora abbastanza forte da poterci costruire sopra un progetto politico alternativo. Per ora c’è un documento politico. Ci lavorano da novembre soprattutto a palazzo Madama. Ora è in stand-by in attesa di una trattativa con la diarchia che guida i Cinquestelle. Un tavolo che ha tre vertici geografici, Roma, Genova e Milano, al quale però nessuna delle due parti sembra ansiosa di sedersi.
Grillo e Casaleggio hanno lo sguardo rivolto altrove. La loro linea non prevede mediazioni con l’esterno, figuriamoci con una minoranza interna debole e divisa. Da parte loro i dissidenti hanno cercato a più riprese un contatto con i vertici in occasione delle discese a Roma dei diarchi ma mai in modo unitario. Eppure i numeri ci sarebbero: quindici deputati e oltre venti senatori. Una pattuglia di dimensioni interessanti soprattutto a palazzo Madama. Difficile però che dal gelido pack Cinquestelle si stacchi un iceberg di quelle dimensioni. «Per fare certe cose ci vogliono gli attributi, sono quelli che mancano», si sfogava ieri lontano dai microfoni un deputato che non avrebbe difficoltà a votare un esecutivo Renzi «se solo ci fosse un progetto politicamente e numericamente credibile, ma qui ci sono dieci posizioni diverse».
A gennaio sembrava che si stesse strutturando un coordinamento politico minimo. Poi è arrivata la guerilla parlamentare che ha serrato i ranghi. L’unico sussulto di protesta unitaria l’ha scatento il famigerato tweet sessista di Claudio Messora che ha unito nella condanna dissidenti e pasdaran. A deprimere l’umore dei critici ci si mettono le buone performance nei sondaggi, dove il Movimento è tornato sostanzialmente ai livelli raggiunti nelle urne di un anno fa, a dissuadere anche i più intraprendenti. «Si vede che ai nostri va bene così», ragionava ieri, in viaggio verso casa, un senatore spesso critico ma ieri piuttosto scoraggiato.
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