venerdì 22 marzo 2013

Un articolo di un ottimo giornalista. Altro che Roberto Lodigiani. Giovannetti le informazioni le dà eccome.


Protezione globale

Di 
Gariboldi, Abelli, Formigoni e la Fondazione Maugeri
Funzionari infedeli, politici corrotti. La Regione Lombardia ha elargito “discrezionalmente” oltre 600 milioni di euro alla clinica Maugeri di Pavia e al San Raffaele di Milano, in cambio di fondi elettorali, contributi finanziari e altri momenti di piacere per l’ex governatore Roberto Formigoni, il «promotore e organizzatore dell’associazione a delinquere» che, negli ultimi dieci anni, grazie a loro non ha praticamente speso un euro di tasca sua. Proprio come i “contributi elettorali” dati dal costruttore Dario Maestri al suo ariete istituzionale Ettore Filippi (ma non chiamatela corruzione, e nemmeno voto di scambio). Intanto si è scoperto che Rosanna Gariboldi coniugata Abelli ha goduto di un contratto «di progetto» presso la Maugeri – «fittizio» secondo gli investigatori – remunerato nel suo insieme con 350.000 euro.
La Fondazione Maugeri nasce a Pavia nel 1965 come Clinica del Lavoro e conta istituti in numerose regioni italiane. Mission: la tutela della salute nel lavoro e la prevenzione dei rischi legati ad attività produttive, con particolare attenzione alla medicina riabilitativa e al reinserimento socio-produttivo del disabile.
Il 13 aprile 2012 la Guardia di Finanza arresta l’ex assessore alla Sanità della Regione Lombardia, il ciellino Antonio Simone, nonché il presidente della Fondazione Umberto Maugeri, il direttore amministrativo Costantino Passerino, il consulente Gianfranco Mozzali e il commercialista Claudio Massimo. E con loro il faccendiere Pierangelo Daccò, in carcere dal novembre 2011 per aver avuto parte nell’oblio materiale e morale dell’ospedale milanese San Raffaele (per questa storia Daccò è stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel processo con rito abbreviato).
I magistrati contestano ai vertici della Fondazione d’aver creato, in Svizzera e a Singapore, fondi neri per 73 milioni di euro «attraverso fittizie operazioni commerciali, fondi extra-bilancio», 63 dei quali destinati a «pagamenti corruttivi per intermediari e pubblici ufficiali» così da “pilotare” 15 delibere regionali e ricavarne oltre 200 milioni di pubblico denaro. Quattrini mossi dagli “emissari” in Regione Simone e Daccò, insieme a quegli altri 9 provenienti dal San Raffaele (che di milioni regionali ne ha infine ottenuti quasi 400, manovrati per nascondere i buchi di bilancio del “santuario” del prete-manager Luigi Verzè).
Secondo la Procura milanese l’onorato e ben remunerato sodalizio Daccò-Simone avrebbe elargito 8 milioni di «tangenti in natura» al governatore lombardo Roberto Formigoni in cambio della sua Celeste «protezione globale». Per la precisione: 4.634.000 euro per l’uso esclusivo di tre yacht tra il giugno 2007 e l’ottobre 2011. L’acquisto dalla Limes («riferibile a Daccò e Simone») di una villa ad Arzachena in Sardegna,«avuta a prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato per un importo di 1.500.000». Cinque vacanze di capodanno (in Argentina, Patagonia, Brasile e due volte nei Caraibi) tra il 2006 e il 2011, per una spesa di 638.000 franchi svizzeri da sommare a 86.000 dollari. 600.000 euro «per finanziare la campagna di Formigoni nella competizione elettorale per la Regione nel 2010». 500.000 euro per eventi incontri e cene elettorali con «altri uomini politici, funzionari regionali, dirigenti di strutture sanitarie private e pubbliche». 70.000 euro per «l’organizzazione di cene e convention nell’interesse di Formigoni durante le edizioni del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini». 18.000 euro in biglietti aerei. A tutto questo andrebbero aggiunte «somme tra i 5.000 e i 10.000 euro consegnate in diverse occasioni a Milano da Daccò e Perego [Alberto Perego, convive con Formigoni] per ulteriori spese connesse all’utilizzo degli yacht» oppure le «somme di denaro periodicamente consegnate a Milano da Daccò a Formigoni, di importo non determinato […] complessivamente non inferiori a circa 270.000 euro». Rispondendo agli inquirenti, il fiduciario svizzero di Daccò e Simone Giancarlo Grenci li informa che «risultano pagamenti di affitti di ville da 80/90 mila euro ai Caraibi per 2-3 settimane e ritengo fossero destinate ad ospitare più persone». Poi ci sono alcuni voli a sbafo su Parigi o Caraibi, per alcune migliaia di euro, in compagnia di Renato Pozzetto oppure insieme al fratello Carlo Formigoni e sua moglie Anna Martelli, o di Alberto Perego: «anche questo – sostiene Grenci – mi è stato riferito da Daccò» (interrogatorio del 14 dicembre 2012).
In cambio di una tale messe di lusinghe – scrivono i magistrati Laura Pedio, Antonio Pastore e Gaetano Ruta – il «promotore e organizzatore dell’associazione a delinquere» Roberto Formigoni si sarebbe adoperato «affinché fossero adottati da parte della Giunta, in violazione di leggi e dei doveri di imparzialità ed esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico, provvedimenti diretti ad erogare consistenti somme di denaro e altri indebiti vantaggi economici» alla Fondazione Maugeri e al San Raffaele: «Formigoni e Sanese [il ciellino Nicola Sanese, segretario generale della Regione] nell’ambito di riunioni ristrette del cosiddetto Tavolo sociosanitario inter-assessoriale» o al virtuale “Caffè Sanità” – luoghi «in cui venivano assunte le decisioni più delicate in materia di sanità» – indicavano al direttore generale dell’assessorato alla Sanità Carlo Lucchina e alla dirigente Alessandra Massei (ciellina doc, ex direttore amministrativo della Maugeri nel 2007-2008, «socia in Sudamerica in una serie di attività con Daccò») «il contenuto economico delle decisioni […] anche in assenza delle condizioni di legge». Era poi compito dei dirigenti trovare «le soluzioni tecniche che fornissero una apparente giustificazione alle erogazioni delle somme richieste», nonostante il parere contrario dei funzionari della direzione generale della sanità. Proprio come all’ufficio Ambiente e Territorio del Comune di Pavia dove, sia pure su scala minore, questa prassi era consolidata norma. Proprio come i “contributi elettorali” elargiti dal costruttore Dario Maestri al suo ariete istituzionale Ettore Filippi (ma non chiamatela corruzione, e nemmeno voto di scambio).
Insomma, tra il 1997 e il 2011 nell’ex “capitale morale” del Paese, il governatore Formigoni avrebbe elargito discrezionalmente montagne di pubblico denaro a private strutture sanitarie, venendo da loro compensato con vacanze dorate e pecunia a scrocco, vivendo così alla grande per un decennio a spese dei lobbysti Sansone e Daccò.
A Roberto Formigoni, Costantino Passerino, Pierangelo Daccò, Antonio Simone, Umberto Perego, Umberto Maugeri, Carlo Lucchina, Alessandra Massei, Nicola Sanese fra gli altri (un totale di 17 persone), nelle scorse settimane i magistrati hanno contestato l’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e frode fiscale. Per i vertici della Fondazione Maugeri e per i suoi consulenti Gianfranco Mozzali e Claudio Massimo anche l’accusa di riciclaggio e appropriazione indebita.
E la mente torna al 20 ottobre 2009, quando in carcere era finito il compianto Giuseppe Grossi, costruttore amico di Formigoni, già membro del cda della Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor, che governa l’ospedale: secondo gli inquirenti, Grossi aveva accumulato presso banche svizzere fondi neri per 22 milioni di euro, il frutto di fatturazioni gonfiate in parte trasferiti, dilavati e asciugati al sole di Hong Kong o di Montecarlo.
Conti cifrati, come quello monegasco di Rosanna Gariboldi – moglie dell’ex vate della sanità lombarda e referente politico della Maugeri in Regione Gian Carlo Abelli – che, arrestata per riciclaggio, ha infine patteggiato una condanna a 2 anni e la restituzione di 1.200.000 euro, saldo del conto “balneare” condiviso con il marito. Conto che negli ultimi otto anni aveva registrato movimenti per 3,5 milioni di euro: 12 in entrata per 2.350.000 euro e tre in uscita per 1.294.000. Secondo la magistratura milanese, è provato che «tutte le rimesse in entrata e in uscita» provenivano da «conti riferibili direttamente a Grossi o suoi sodali». E sodale era Fabrizio Pessina (incarcerato dal febbraio al luglio 2009), l’avvocato che aveva disposto i versamenti estero su estero sul conto segreto della signora Abelli.
L’inchiesta era partita dalla bonifica ambientale di Santa Giulia, alle porte di Milano, affidata alla Green Holding di Grossi. Ma col tempo le indagini hanno intrapreso anche altre vie: a cosa dovevano servire i fondi neri creati dal Grossi, se non a corrompere pubblici amministratori, politici e funzionari? I magistrati della Procura milanese (gli stessi che hanno indagato sui “fondi neri” alla Maugeri) ne sembrano convinti. Fatto è che, in sette anni, ben 275 milioni di pubblico denaro sono passati dalle casse della Regione Lombardia alle tasche del ciellino Giuseppe Grossi.
Il costruttore Grossi lo ricordiamo in affari con Mario Resca (erano anche proprietari dell’ex zuccherificio di Casei Gerola in Lomellina), l’imprenditore vicinissimo a Paolo e Silvio Berlusconi, nonché direttore generale del Ministero dei Beni culturali e vicepresidente della Sesto Immobiliare (la società di Davide Brizzi che nel 2008 – in cordata con il Consorzio cooperative costruzioni di Bologna, Bancaintesa, Unicredit, un Fondo coreano e uno americano – ha acquistato da Luigi Zunino l’area Falk di Sesto San Giovanni), al centro dello scandalo mazzette che ha visto coinvolto anche l’ex sindaco e presidente della Provincia di Milano Filippo Penati (Pd), candidato governatore per il centrosinistra alle elezioni regionali lombarde nel 2010.
Secondo Umberto Maugeri, negli anni Novanta quando Abelli era assessore regionale, «non esisteva il problema di andare continuamente in Regione a discutere». Forse è per gratitudine che alla signora Gariboldi in Abelli, per dieci anni la Fondazione ha riconosciuto un contratto «di progetto» – «fittizio» secondo gli investigatori – remunerato nel suo insieme con 350.000 euro.
«Per me pagare Abelli era come stipulare un’assicurazione. Dovevo tenermi buono un personaggio politico che nel settore contava molto». Parola di Giuseppe Poggi Longostrevi, proprietario di cliniche e “re Mida” della sanità lombarda, coinvolto nello scandalo delle “ricette d’oro” (700 medici coinvolti, 175 condannati per aver prescritto inutili e costosi esami clinici nelle sue cliniche private, convenzionate col sistema sanitario). Longostrevi morì suicida nel 2000.
La maxi-truffa al servizio sanitario nazionale emerge nel 1996, dopo una denuncia alla Procura milanese da parte dell’avvocato amministrativista Giuseppe Santagati, a quel tempo direttore generale dell’allora Unità socio-sanitaria locale 39-Milano sud.
All’epoca Abelli era presidente della importantissima Commissione Sanità della Regione Lombardia. Processato, nel 2003 verrà assolto dall’accusa di frode fiscale, anche se la sentenza confermerà che l’assessore di Formigoni aveva ricevuto da Longostrevi 72.800.000 in lire per una consulenza «non effettiva», tale da mascherare «un versamento in denaro al politico per guadagnarne i favori».
Gian Carlo Abelli aveva conosciuto la galera, anche se per poco tempo nel 1985, per ordine del gip Cesare Beretta che lo accusava di peculato e concorso in truffa nell’ambito di una inchiesta sull’ospedale Policlinico San Matteo di Pavia, di cui Abelli era stato per lungo tempo presidente. Con lui, finirono in carcere Dino Landini (direttore amministrativo del San Matteo) e Claudio Gariboldi, fratello di Rosanna, titolare dell’agenzia di assicurazioni Reliance, nonché agente per altre compagnie. Dopo aver confrontato fra loro molti contratti, Beretta e il pm Giuseppe Baccolo avevano scoperto che le numerose polizze custodite al San Matteo presentavano importi molto più elevati di quelle analoghe presso Gariboldi. Il cognato si accollerà ogni responsabilità, “scagionando” così Abelli.
«Sa che cosa successe invece a me?» Giuseppe Santagati, anni dopo aver denunciato lo scandalo milanese delle “ricette d’oro” domanda a Gianni Barbacetto che lo sta intervistando per “Il Venerdì di Repubblica” (11 luglio 2008), che rimanda: «Ebbe un premio, per aver fatto risparmiare alla Regione un pacco di miliardi?» Santagati risponde: «No. Fui cacciato. Sostituito al vertice della mia ex azienda (ironia della sorte o scelta calcolata?) da un mio omonimo: Santagati Giuseppe, stesso nome e stesso cognome». E ancora durante l’intervista: «La Regione paga, butta i nostri soldi. Come fanno a ripetere che la sanità lombarda è la migliore d’Italia? Hanno trasformato gli ospedali in un supermercato: ed è una gara a offrire le cure più costose, non importa se utili o no. Uno entra per una visita ed esce con un trapianto. L’interesse del sistema è il profitto dell’imprenditore della sanità, non la salute del paziente». 
Ma la Regione non controlla? «Se a scandalo segue scandalo, è evidente che i controlli non funzionano. Sono i fatti a dimostrarlo. Il modello lombardo, il modello Formigoni, ha trasferito ingenti risorse dagli ospedali pubblici alle cliniche private. La Regione paga, alla fine, le prestazioni di tutti. Così, nel migliore dei casi, spinge a dare sempre più prestazioni, e a scegliere quelle più costose. Nel peggiore dei casi, quando entra in scena un medico disonesto, le prestazioni saranno anche inutili, oppure dichiarate ma non eseguite».

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