“Veloce come Mennea”. Per chi è cresciuto negli anni ’70 in Italia non ci poteva essere complimento più grande, se si parlava di rapidità. Il termine di paragone assoluto. Pietro Mennea, morto ieri a 60 anni, era il Bolt di quegli anni. Record del mondo sui 200 metri nel 1979 a Città del Messico con un tempo, 19’’72, che avrebbe resistito per quasi 20 anni. Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca l’anno dopo, sempre sui 200 metri. Mennea era però diversissimo da Bolt. Un fisico “normale”, del tutto sprovvisto degli enormi muscoli che hanno i velocisti di oggi.
Riusciva a essere competitivo ai livelli più alti solo sottoponendosi ad allenamenti durissimi quasi ogni giorno dell’anno. A dirigerlo c’era il professor Carlo Vittori. Un ascolano e un barlettano, due prodotti della provincia italiana, che erano arrivati al vertice del mondo in una specialità universale come la velocità. Un meraviglioso controsenso.
La carriera di Mennea non è stata fatta solo di trionfi. Ricordo ancora la delusione del quarto posto ai giochi di Montreal e lo sfogo sulla mancanza di strutture per l’atletica in Italia. E tutti a pensare che erano solo scuse, che era la delusione, che non ce l’avrebbe più fatta a vincere una medaglia olimpica, che non reggeva la pressione. E quando nella finale dei giochi di Mosca uscì dalla curva dell’ottava corsia in ritardo netto su Wells, tutti abbiamo pensato che era finita. Invece poi la rimonta. “Recupera, recupera, recupera”. Centimetro dopo centimetro, metro dopo metro, istante dopo istante, in apnea lui e noi. La liberazione del traguardo, primo, medaglia d’oro, con il cronista che urla: “Ha vinto, ha vinto”. La gioia di sentirsi per un giorno in cima al mondo, anteprima dolcissima di quello che avremmo provato due anni dopo in Spagna.
Pietro Mennea, il più grande dell’atletica italiana. Non è un giudizio tecnico, non ne ho la competenza. E’ solo una verità incontrovertibile per chi ha vissuto quei giorni, chiedendo comprensione alla pure immensa Sara Simeoni.
Oggi uno con il fisico di Pietro Mennea non sarebbe nemmeno indirizzato verso i 200 metri. Oggi abbiamo l’Alta Velocità, sui binari e sulle corsie. E’ cambiata la tecnologia e c’è chi è finito fuori mercato. Il passato è passato e per sempre. In un momento così triste noi, ragazzi degli anni ’70, possiamo solo cullare l’inconfessabile nostalgia per i tempi in cui la Freccia del Sud correva veloce sotto i cieli italiani. Addio, Mennea, e grazie di tutto.
La carriera di Mennea non è stata fatta solo di trionfi. Ricordo ancora la delusione del quarto posto ai giochi di Montreal e lo sfogo sulla mancanza di strutture per l’atletica in Italia. E tutti a pensare che erano solo scuse, che era la delusione, che non ce l’avrebbe più fatta a vincere una medaglia olimpica, che non reggeva la pressione. E quando nella finale dei giochi di Mosca uscì dalla curva dell’ottava corsia in ritardo netto su Wells, tutti abbiamo pensato che era finita. Invece poi la rimonta. “Recupera, recupera, recupera”. Centimetro dopo centimetro, metro dopo metro, istante dopo istante, in apnea lui e noi. La liberazione del traguardo, primo, medaglia d’oro, con il cronista che urla: “Ha vinto, ha vinto”. La gioia di sentirsi per un giorno in cima al mondo, anteprima dolcissima di quello che avremmo provato due anni dopo in Spagna.
Pietro Mennea, il più grande dell’atletica italiana. Non è un giudizio tecnico, non ne ho la competenza. E’ solo una verità incontrovertibile per chi ha vissuto quei giorni, chiedendo comprensione alla pure immensa Sara Simeoni.
Oggi uno con il fisico di Pietro Mennea non sarebbe nemmeno indirizzato verso i 200 metri. Oggi abbiamo l’Alta Velocità, sui binari e sulle corsie. E’ cambiata la tecnologia e c’è chi è finito fuori mercato. Il passato è passato e per sempre. In un momento così triste noi, ragazzi degli anni ’70, possiamo solo cullare l’inconfessabile nostalgia per i tempi in cui la Freccia del Sud correva veloce sotto i cieli italiani. Addio, Mennea, e grazie di tutto.
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