È arrivato il momento di smetterla con le cazzate su giovani e droga in Italia
News Editor
Arrivano a frotte nelle città di mare, si perdono nelle discoteche in cerca di sensazioni forti, non guardano in faccia a nessuno e cercano in ogni modo di svoltare le proprie giornate. No, non sto parlando dei giovani in vacanza—sto parlando dei giornalisti che scrivono su di loro.
Dal caso del sedicenne morto a Riccione in poi, l'allarme sulla stampa italiana è totale: i telegiornali aprono dalle trincee del Salento e della riviera romagnola; i talk show pomeridiani sono pieni di facce contrite che si chiedono dove nasca il disagio dei nostri ragazzi, e le prime pagine dei quotidiani sono occupate dalle cronache da questi luoghi di perdizione che sono le discoteche, dove girano sostanze come l'ecstasy che—informano le agenzie di stampa—è tornata a essere "la droga di 'moda'."
I commentatori più autorevoli, dal canto loro, scrivono editoriali sul sempre più "precario e fragile" rapporto "tra i ragazzi e il resto della società." Proprio ieri Michele Serra ha deciso trasformare i suoi Sdraiati in Gli Sconosciuti, ossia ragazzi che "detestano quasi tutte le parole che usiamo spendere su di loro, e anche per questo leggono sempre meno e guardano sempre meno i telegiornali." E come biasimarli? Alla luce di quello che è uscito in questi giorni un atteggiamento del genere non solo è comprensibile, ma perfettamente giustificato.
Dopo la chiusura del Cocoricò disposta dalla questura sembrava che il panico morale si fosse un attimo placato. Il pubblico aveva avuto "giustizia" e si era evitato il rischio che questioni amene come "riduzione del danno" potessero entrare nel dibattito—del resto, a cosa serve la prevenzione quando c'è uno strumento molto più pratico e risolutivo come il TULPS? Nonostante ciò, l'ondata emotiva e paternalista non si è spezzata; anzi, si è gonfiata a dismisura con due casi molti diversi tra loro ma cronologicamente vicini—quelli di Lorenzo Toma e Ilaria Boemi.
Il primo, un diciottenne leccese, è morto all'alba del 9 agosto dopo aver passato una serata al Guendalina, a Santa Cesarea. Sebbene le dinamiche fossero tutt'altro che chiare—sin da subito si è parlato di malore dopo "aver bevuto qualcosa da una bottiglia" dal contenuto imprecisato—l'equazione sballo-droga-morte è stata tracciata in tempo record, ben prima dell'autopsia. Tra i primi a farlo c'è stato il sindaco dimissionario della città, Francesco Errico, col tweet ormai celebre.
Il Codacons, invece, ha spostato il focus sul Guendalina chiedendo "un giro di vite nelle discoteche italiane e nei locali della movida." Quest'ultima—o meglio, "quelle notti da sballo sulla riviera salentina"—è stata l'oggetto di alcuni pezzi davvero notevoli. In uno pubblicato sul Corriere della Sera, ad esempio, si parte dalla premessa che Toma sia morto per le "pasticche" e lo "sballo," per poi descrivere in dettaglio le mollezze notturne e i vizi capitali commessi dal "baby-vacanziere."
Tra i mille particolari registrati dalla penna acuminata del cronista, i miei preferiti sono quello per cui i ragazzi "ordinano il secchiello delle mille cannucce colmo di mojito e invitano a bere più ragazze possibili," e l'incredibile "nuovo modo per farsi male" in Salento—i "tampax alcolici" da "indossare" per via vaginale o rettale. In realtà, questa "ultima assurda perversione" è una vecchia e screditatissima cazzata; ma evidentemente noi ci siamo arrivati solo nel 2015.
Questo tipo di narrazione pompata e sovreccitata si è infranta non appena sono arrivati i risultati dell'autopsia, che hanno annullato ogni tipo di speculazione e allarmismo. Lorenzo Toma, infatti, non è stato ucciso dalla "movida selvaggia," ma da una malformazione congenita—la cardiomiopatia ipertrofica.
Che fare, a questo punto? Come superare l'impasse? Guardando a come la stampa è intervenuta sul caso di Ilaria Boemi, sembra che la risposta andata per la maggiore sia una: continuando come si era fatto fino a quel momento. La notte del 10 agosto, la ragazza di sedici anni è stata ritrovata senza vita sul lungomare di Messina. Ad oggi non ci sono né gli esami tossicologici, né la certezza che l'assunzione di droga sia stata letale. La stampa, però, ha subito puntato in direzione del divertimento degenerato.
A differenza di quanto successo con Lorenzo Toma, però, lo stile di vita della vittima e la sua personalità––e non la "movida"––sono state al centro dell'analisi. Ilaria Boemi, infatti, viene descritta come una ragazzina strana. Come spiega uno dei più incredibili articoli di Repubblica che abbia mai letto, ha "il viso sfigurato da cinque piercing," il "lobo dell'orecchio destro sfondato" e "i capelli cortissimi rasati alle tempie a darle un aspetto ancor più mascolino."
Questo è solo l'inizio di un articolo che in teoria dovrebbe essere di cronaca, mentre nella pratica è il remake di Trainspotting girato da Paola Binetti. La giornalista, infatti, si sofferma sul fatto che la "figlia ribelle e trasgressiva" avesse litigato con la madre, la quale le avrebbe comunque dato "quei 20 euro che forse le sono serviti per acquistare la pasticca fatale," e passa ad analizzare i gusti musicali ("gruppi satanisti ed emo") e le frequentazioni ("ambienti antagonisti" e "centri sociali") come se in qualche modo tutti questi fattori fossero palesemente legati alla morte.
A metterci il carico, poi, ci pensa un articolo del Corriere che scandaglia la bacheca Facebook di Ilaria Boemi alla ricerca della motivazione psicologia del suo "disagio adolescenziale." Il "travaglio intimo" che accompagnava la ragazza, afferma il giornalista, è desumibile dal fatto che il suo profilo abbondava di "citazioni nere" (in realtà testi rap) che, in un qualche modo, avrebbero potuto prefigurare una fine tragica.
Passando a un livello più generale, in un dibattito intrappolato nelle sabbie mobili dell'emotività non c'è alcuno spazio per ragionamenti non dico complessi, ma che almeno cerchino di sfiorare la realtà delle cose.
Tanto per mettere le cose in chiaro, l'ecstasy non è la droga che uccide di più, e i minorenni non sono le sue vittime predilette. Secondo i dati contenuti nella relazione annuale antidroga del 2014 redatta dalla polizia, la sostanza più letale è ancora la "vecchia" eroina. Nel 2015, inoltre, come evidenziato in questo articolo, sono stati "quattro i teenager che hanno perso la vita per l'abuso di droghe, mentre la stessa sorte è toccata a 49 persone di età compresa tra i 35 e i 39 anni."
Questo non significa che non ci sia un problema da qualche parte (in Italia l'informazione/educazione sulle sostanze è pessima e al tempo stesso lo stigma associato a un consumo di qualunque tipo ancora fortissimo, per esempio), ma lasciare fuori dall'equazione dati del genere e affidarsi al sociologismo d'accatto non è la soluzione. Del resto, quando si è nel mezzo di un'emergenza montata ad arte tutto è lecito—compreso l'abbandono di qualsiasi cautela e scrupolo.
Il cronista Carlo Rivolta, scomparso prematuramente nel 1982 a causa dell'eroina, diceva che lo "spessore umano" di un giornale lo si misura da "come dà la cronaca, se fa a brandelli la vita della gente o se cerca di aiutarla." Credo che in questi giorni chiunque abbia avuto modo di farsi un'idea di questo spessore.
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