Arrendetevi, gli influencer sono ormai ovunque
di Mattia Costioli
Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con Hello bank!
I social media hanno cambiato il modo di fare marketing e fornito un nuovo punto di vista per guardare i prodotti, sia dal lato dei consumatori che per le aziende. Quello che prima poteva apparire come una cerchia ristretta e limitata agli addetti ai lavori, ora si è allargata e ha iniziato a rovesciare borse di soldi su quelli che un tempo erano semplicemente clienti seriali. Stilisti, modelli, giornalisti e designer hanno dovuto aprire le porte del loro business patinato a un gruppo di persone esterne: gli influencer.
Tuttavia, la definizione stessa di influencer è poco delineata e include tutta la gamma di esseri umani compresa tra PewDiePie e quel ragazzo simpatico che fa i corsi di yoga e abita al terzo piano del vostro palazzo. Secondo una ricerca di Augure, il 60 percento delle aziende italiane dedica una parte del proprio budget per la comunicazione agli influencer e, sempre secondo la ricerca, il 30 percento è convinto che la celebrità non sia una discriminante fondamentale per comprendere chi sia un influencer.
La ricerca evidenzia che alla domanda "Chi è un Infuencer?" gli intervistati hanno dato risposte abbastanza omogenee: il 77 percento attribuisce un grande rilievo alla Eco, ovvero la capacità di creare un'opinione ed essere influente rispetto a una tematica precisa. Per quasi i tre quarti del panel intervistato, invece, per valutare il peso di un influencer è necessario considerare l'Esposizione, ossia la sua audience potenziale online. Infine, la Share of voice, che rappresenta il livello di partecipazione dell'influencer al dibattito su un particolare argomento, è di rilievo per il 65 percento del campione considerato.
Sostanzialmente, per fare una sintesi grossolana, l'influencer è una specie di manichino al contrario, la cui personalità può essere presa e fatta indossare dal prodotto, qualsiasi esso sia, in modo da avere un riscontro immediato––tant'è che la maggior parte delle aziende dichiara di affidarsi agli influencer soprattutto per i lanci delle novità e la comunicazioni di eventi. Le aziende stanno pagando profumatamente i frutti più maturi di quell'operazione di self branding su cui chiunque, volontariamente o meno, ha cominciato a investire nel momento esatto in cui si è iscritto ai social network.
Il compito di queste persone è infettare quel meraviglioso sistema nervoso che è la società umana, essere pagati per scavare nelle regioni più periferiche di internet e arrivare tra i feed di Instagram di quella vostra cugina con poca voglia di studiare. Così facendo il confine tra prodotto ed essere umano è diventato piuttosto labile, nel senso che è quasi impossibile capire se una foto su Instagram sia stata postata per una qualche forma di estro creativo spontaneo; e in realtà, per chi segue un influencer, non c'è nessuna differenza.
Da quando Chiara Ferragni ha iniziato a guadagnare più dell'intera sezione marketing di una rivista di moda, sono iniziate a spuntare le agenzie per influencer, e scoprire quali siano le persone più influenti su un determinato argomento o settore è diventato fondamentale per ogni piano di comunicazione ben costruito. L'esempio più evidente è sotto gli occhi di chiunque abbia mai fatto caso al modo in cui Facebook compila la sua sezione notizie: le foto del chiringuito del vostro amico in Brasile le vedete sempre, il link del vostro magazine online preferito a un sito esterno solo a volte.
Senza nemmeno provare a considerare quali siano i motivi per cui questo avviene, è evidente che entrare nella sfera privata di una persona è molto più facile se si punta su contenuti più adatti ai social network, che siano stati pensati fin dal principio per vivere esclusivamente all'interno del social network.
In un documentario girato recentemente da Tailify (che è una delle agenzia per influencer più all'avanguardia del pianeta) Cecilie Thorsmark, responsabile del Danish Fashion Institute e della Fashion Week di Copenaghen, si è espressa sui social media sottolineando la loro "stravolgente capacità di creare hype su un prodotto. Ad un certo punto ti ritrovi ad aprire Instagram e pensare che ti servono gli occhiali di quella persona o le scarpe di quell'altra persona [...]. Credo che oggi i brand non debbano più competere nelle vetrine o sugli store online, ma debbano farlo sui social network."
I dischi escono senza bisogno di promozione, anche in Italia, Nike mette in vendita le sue Yeezy disegnate da Kanye West alla modica cifra di non-potete-nemmeno-immaginarla dollari con un tweet, ignorando qualsiasi tipo di compagna promozionale tradizionale, PewDiePie fattura più della divisione europea di Wired e tutti rincorrono la personalità, che al momento vale più di qualunque altra cosa.
Grab dalla homepage di Tsū.
Qualche tempo fa un social network che si chiama Tsū ha provato a scardinare questo sistema e ridistruibire gli introiti degli influencer verso i gradini della piramide che li avvicinano al cielo, ma il risultato è stato soltanto a dir poco patetico. È facile sostenere che la visibilità dei social media abbia aperto una finestra di opportunità per sostenere la creatività delle persone, ma è anche vero che tutto si è appiattito in maniera impressionante verso una guerra di like miope e inutile. L'industria della comunicazione è più connessa che mai, ma i nodi che la tengono in piedi sono orrendamente disconnessi.
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