La cattiva notizia è che non andremo mai in pensione
di Nicolò Cavalli
Illustrazione di Giovanni Forleo
Questo post fa parte di Macro, la nostra serie su economia, lavoro e finanza personale in collaborazione con BNL.
In Italia si parla spesso di pensioni—e forse è questo il naturale ordine delle priorità in un Paese con 13 milioni di ultra 65enni e solo 8 milioni di under 14. Peccato che nel mezzo ci siano almeno 10 milioni di 20-40enni che, senza rendersene conto, si bevono il futuro all'ora dell'aperitivo. "Se i giovani precari conoscessero quanto prenderanno una volta smesso di lavorare rischieremmo una rivoluzione," ha detto nel 2010 l'allora presidente dell'Inps—l'istituto che ogni mese paga le pensioni—Antonio Mastrapasqua. Molti di quelli che oggi hanno un lavoro si aspettano di ricevere da anziani attorno al 70 percento del proprio stipendio, ma purtroppo la realtà nasconde per loro qualche sorpresina.
Secondo il Censis, il 65 percento dei 25-34enni oggi occupati con contratti stabili—ossia 3,4 milioni di persone—avrà una pensione di molto inferiore ai mille euro. Un trentenne che guadagna 1000 euro netti ma ha avuto un'interruzione nella sua vita lavorativa rimanendo disoccupato per qualche mese riceverà tra i 500 e i 600 euro al mese di pensione se smetterà di lavorare a 65 anni. Secondo Michele Raitano, economista dell'Università la Sapienza, chi ha iniziato a lavorare a 24 anni con uno stipendio da 15mila euro lordi annui nel 1996—o 22mila euro nel 2006—avrà una pensione di 1300 euro lordi dopo 43 anni di lavoro, anche se non è mai stato licenziato. Si tratta di un caso fortunato. La cifra scende a 890 euro nel caso in cui il contratto di lavoro non sia di tipo "standard" ma di collaborazione, a 760 euro nel caso di un part-time, e ancora a meno nel caso di un lavoratore autonomo.
Si salverà solo chi guadagna tanto e chi ha un lavoro fisso—o magari entrambe le cose. Ma è da decenni che il reddito degli italiani non era così basso, e il 61 percento dei millennial finora ha avuto una contribuzione pensionistica intermittente, perché ha lavorato con contratti temporanei e cambiato spesso lavoro.
L'aumento del numero di contratti a tempo determinato, l'alta disoccupazione e l'assenza di ammortizzatori sociali hanno fatto crollare il reddito di chi ha meno di 40 anni. Così, due terzi delle persone che hanno iniziato a lavorare prima del 2000 hanno accumulato nei primi otto anni di carriera molti meno contributi di quelli che avrebbe accumulato nello stesso periodo un lavoratore di quarant'anni fa, anche se a bassa retribuzione. I lavoratori che ieri erano poveri, insomma, adesso stanno vivendo una vecchiaia migliore di quella che avrà il 70 percento dei lavoratori di oggi.
Già, perché in teoria la pensione che ognuno di noi riceverà è proporzionata alle tasse che avremo versato nel corso della nostra vita lavorativa, spalmando il totale versato sugli anni che lo Stato stima che passeranno prima che moriamo e correggendo questa cifra in base alla crescita del Pil nazionale. Questo sistema si chiama contributivo, perché lega la pensione ai contributi effettivamente versati.
Ma non è stato sempre così. Fino all'inizio degli anni Novanta, lo Stato italiano prometteva a chi smetteva di lavorare dopo un certo numero di anni una pensione pari all'ultimo stipendio, rivalutato del due percento e corretto per il numero di anni di lavoro. La cosa andava bene fino a che c'erano pochi anziani e molti giovani lavoratori, come negli anni del boom economico. Ma ora questi lavoratori vanno in pensione dopo aver fatto pochi figli, e vivono molto più a lungo di quello che lo Stato si aspettava.
Tutta la storia sembra insomma un gigantesco schema Ponzi arrivato ormai all'atto conclusivo—alla fine cioè di un sistema pensato per il secolo scorso, quando le persone facevano ogni santo giorno la stessa cosa, per tutta la vita, e la struttura della popolazione era molto diversa. Gli effetti di questi calcoli sbagliati sono disastrosi. L'Inps, infatti, ha un piccolo problema: già oggi non ha abbastanza soldi per pagare le pensioni esistenti. Così ogni anno preleva circa otto miliardi di euro dalle tasse pagate dai lavoratori, spesso giovani, con contratti di collaborazione o a partita iva—otto miliardi che dovrebbero costituire i risparmi con cui pagare le loro, già misere, pensioni future. Lasciando in braghe di tela e con un conto molto salato da pagare un'intera generazione.
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