sabato 19 aprile 2014

Siamo tutti cittadini di Macondo.

Saremo sempre cittadini di Macondo

Persone molto lontane e diverse tra loro si ritrovano in «Cent’anni di solitudine»

di FRANCESCO PICCOLO

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Ogni uomo che lascia così tanti amici deve per forza essere stato un grande uomo. Per questo, la scomparsa di Gabriel García Márquez sta mostrando reazioni forti in tutto il mondo. Qualcosa di simile a quanto successo con Nelson Mandela. Però il conforto che ci danno gli scrittori, lo esprimiamo dicendo: lui vive ancora, perché ci ha lasciato questo o quel libro. Di Gabo sappiamo perché non morirà mai più.
Tutti, o quasi tutti, hanno letto Cent’anni di solitudine. Tutti, o quasi tutti, si ricordano dove e quando lo hanno letto. Per esempio, io tornavo ogni giorno su una panchina del parco vicino a casa, esattamente come García Márquez tornava di continuo davanti al plotone di esecuzione di Aureliano Buendía. Il romanzo è lungo e complicato, oltre a essere bellissimo. E quindi non era consigliato leggersene qualche pagina prima di andare a dormire. È questa la magia di certi romanzi: se li vuoi capire, se ci vuoi stare dentro, devi galoppare tra le pagine; e però hanno sviluppato un antidoto alla costrizione, una potenza della pagina che ti avvinghia e ti fa galoppare. E ce n’è un’altra di magia: chi ha letto Cent’anni di solitudine, mentre lo leggeva, si è dimenticato del mondo — delle cose da fare, dei baci da dare, dei compiti da svolgere; si è dimenticato di mangiare, di dormire, e ha fatto un sacco di confusione tra la vita propria e quella dei personaggi, tra la propria città e Macondo. E anche qui, c’è una corrispondenza perfetta con il romanzo, che è costruito con un tempo esploso, in cui si va in avanti e indietro, si ripassa per certi momenti decisivi e si vola via in qualche altro secolo. Molti anni dopo, siamo rimasti incantati da certi azzardi nella narrazione, da Quentin Tarantino ad altri geni del cinema. Ma solo perché ci eravamo dimenticati di Cent’anni di solitudine.
Nessuno ricorda la trama, o l’intreccio dei personaggi. Si ricordano le code di maialino, la fucilazione, un castagno; si ricorda come muoiono i personaggi ancora più di come hanno vissuto. Ma soprattutto — è quello che sta accadendo in queste ore, con le parole che rimbalzano tra i social e i giornali e le tv e i caffè affollati — si ricorda di aver tenuto tra le mani quel libro, di averlo cominciato ed esserci caduto dentro. Si ricorda quando e dove si è letta la parola Macondo e il fatto che un romanzo cominci con le parole «Molti anni dopo...». E poi un ammasso di strane immagini apparse nella testa, di bambini e adulti, di gemelli e di vecchie che non muoiono più. Si ricorda più di ogni altra cosa una sensazione sfocata e precisissima: un sentimento di appartenenza al genere umano, attraverso le vicende disgraziate di una famiglia e di una città prima immaginata e poi costruita da José Arcado Buendía, il primo di una lunghissima serie di Buendía. 
Quel sentimento di appartenenza al genere umano corrisponde alla Creazione. Quasi con esattezza. Questo è il segreto di Cent’anni di solitudine: un uomo, un giorno, decide di creare la città dal nulla, quindi crea un complesso di relazioni che il tempo moltiplica e complica. E sfogliando le pagine sembra di scorrere la nascita e i dolori di tutto il genere umano. Non è usuale, in un romanzo. Tutti i lettori che oggi ricordano il momento in cui hanno cominciato il Grande Libro, quando lo hanno richiuso sull’ultima frase: «Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra», hanno chiuso anche gli occhi e hanno sentito con precisione di appartenere al mondo.
A molti piace dire che in fondo García Márquez ha scritto un solo libro, questo. La verità è che ne ha scritti molti, e molti libri buoni. Ma ha anche scritto un romanzo gigantesco. E non è colpa sua.

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