Gli investimenti esteri in Italia pesano 280 miliardi
I fondi esteri investono con modalità diverse, all’Italia tocca trovare la governance giusta
Ne parlano tutti. Il governo li invita a investire. I fondi si sono mossi e con sé portano logiche, religioni e culture differenti. Adesso se non si vuole far scappare il denaro spetta all’Italia comprenderne le logiche d’investimento e definire regole univoche. Da far rispettare a tutti, in primis agli italiani. Anche perché le somme in ballo cominciano a essere interessanti.
I capitali esteri valgono per la Borsa italiana 178 miliardi. Più o meno il 42% della capitalizzazione complessiva. Sul fronte M&A dal 2008 a oggi le aziende tricolore acquisite da straniere sono state circa 850, per un controvalore in difetto (non tutti gli importi sono dichiarati, ndr) di oltre 100 miliardi. Solo il 10% rientra nelle logiche prettamente finanziarie. Il resto può essere definito di natura industriale con tutto ciò che ne consegue nelle logiche e negli investimenti. Da un lato si investe e dall’altro si compra. Soprattutto made in Italy.
Lo shopping estero è stato massiccio in questi anni ed è risultato ancora più spiccato perché l’attività di acquisizioni italiane oltre confine è andata scemando. Nello stesso periodo (ultimi sei anni) le aziende italiane che hanno fatto shopping all’estero hanno portato a casa 60 miliardi di euro con un crollo drastico nel 2012 e 2013. I flussi di capitali esteri in Borsa sono passati da un controvalore di circa 138 miliardi nel gennaio 2013 a 178 dello scorso marzo. Ma la percentuale sulla capitalizzazione è rimasta più o meno la stessa. Fatta eccezione per le scommesse a Stelle e strisce. L’esposizione degli istituzionali Usa al netto del rally azionario è cresciuta infatti del 17 per cento. Un dato che pesa al di là del valore intrinseco per via dello spunto psicologico che può rappresentare. Senza dimenticare che di strada da percorrere per aprire davvero il mercato ne rimane tanta. Per esempio sul segmento Star.
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Secondo i numeri resi ufficiali dalla Consob a inizio marzo la presenza degli istituzionali esteri sul listino delle small cap è aumentata. Gli investimenti sono saliti alla cifra di 2 miliardi, che restano però solo il 9% della capitalizzazione del segmento. Su tutto campeggia una speranza suffragata da indizi concreti. L’interesse per il mercato italiano appare sempre meno opportunistico (dettato da mere logiche di ricollocamento degli asset) e più di lunga durata. A farlo presumere è la natura dei deal e il dna di lungo termine alcuni investitori. Se come in molti si augurano la presenza estera in Italia si dovesse rivelare stabile è il caso di domandarsi quali logiche d’investimento ci sono dietro ai fondi americani, cinesi, arabi o norvegesi. Un esercizio probabilmente utile per immaginare le governance del futuro e la concreta aspettativa che si realizzi – dopo decenni di parole – il percorso delle liberalizzazioni. Anche se sul futuro di Piazza Affari e su quello del Pil italiano continuano a pesare le riforme non fatte. Le promesse al momento mancate. La situazione regolatoria nei fatti instabile.
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Cinesi: obiettivo griffe ed energia
Premesso tutto ciò, l’esercizio va scisso in tanti capitoli quante sono le famiglie di investitori che si affacciano sul Belpaese. I cinesi, per esempio, sono alla ricerca di nuovi mercati di sbocco e hanno anche bisogno di acquisire il “gusto” italiano ispirandosi ai nostri format commerciali. Per questo investono in brand non più sulla cresta dell’onda come Krizia, da poco comprata, o di nicchia come Gusella, lo storico marchio milanese di calzature per bambini che nel 2011 aveva chiuso i battenti ma che è stato acquistato nel 2013 per via dell’archivio storico che porta in dote 50 anni di storia e modelli. Idem per gli yacht Ferretti salvati prima e ora in pieno rilancio.
Ma il nocciolo della strategia del Dragone si può riassumere in una parola: energia. A metà marzo mentre il numero uno Xi Jinping era in viaggio per l’Europa (Itala esclusa) la banca centrale del Dragone ha annunciato di aver superato la soglia del 2% sia in Eni che in Enel. Un messaggio chiaro all’Europa, alla Russia e agli Stati Uniti. Non esiste solo il gas di Putin e non esistono solo i Treasury bond (la Cina ha appena chiuso un memorandum in materia addirittura con il Pakistan). In Inghilterra i cinesi hanno potuto investire in energia nucleare, ma il business più interessante dal punto di vista strategico si ripropone ancora una volta in Italia.
È imminente la vendita del 49% di Cdp Reti, la sub-holding di Cassa depositi e prestiti che detiene il 30% di Snam e dovrebbe incamerare il 29,9% di Terna. Sono state selezionate due offerte: quella dei cinesi di State Grid Corporation of China e quella degli australiani dell’Industry Funds Management (Ifm). I primi sono interessati a rilevare tutta la partecipazione con una motivazione strategica, mentre Ifm sembra avere le caratteristiche di investitore finanziario di lungo periodo che potrebbe piacere all’azionista di maggioranza. Gas ed elettricità sono però aree sensibili. Che cosa deciderà il governo: l’acquirente della quota di minoranza dovrà essere occidentale oppure potrà essere un fondo sovrano o un gruppo di investitori? Quale governance sarà concessa? Gli inglesi hanno concesso alle società cinesi investimenti nel nucleare ma hanno precluso le reti. La scelta dell’Italia è fondamentale da un lato dal punto di vista dell’intelligence dall’altro per tracciare (o stoppare) un percorso che agli occhi degli investitori cinesi sarebbe probabilmente di sola andata. Entrare negli asset italiani per non uscire.
Per i fondi arabi il discorso è completamente diverso. Innanzitutto bisogna distinguere tra quelli che hanno il petrolio e sono attratti dai trophy assets, ovvero dal made in Italy da esibire. E tra coloro che privi di fonti non rinnovabili puntano principalmente alle infrastrutture. A questi ultimi serve tecnologia e know how tricolore. La strategia di Etihad su Alitalia in questo senso è un caso da manuale. Entrare in Italia equivale a ottenere il passaporto per l’Europa. Non a caso cominciano a circolare le voci di possibili investimenti anche nello scalo romano di Fiumicino.
Fondi Usa, soldi subito
Tutt’altro passo imprimono alla corsa i colossi Usa. Gli investitori a Stelle e strisce puntano principalmente sui flussi di cassa. La partecipazione degli investitori istituzionali americani nel listino principale di Piazza Affari vale circa 82 miliardi. Stando alla banca dati S&P Capital IQ, dall'inizio dello scorso anno ad oggi il controvalore delle partecipazioni da Oltreoceano nel Ftse Mib è cresciuto di quasi 30 miliardi con un incremento del 64 per cento. Blackrock negli ultimi due mesi ha conquistato ufficialmente il 5,7% di Banca Mps e il 5,24% di Unicredit, diventando così il secondo azionista di Siena e il primo di piazza Cordusio mettendo un passo avanti rispetto al fondo Aabar che ne detiene il 5,08 per cento. Il 13 febbraio il fondo si era piazzato al secondo posto tra i soci di Intesa con un 5% e più in generale conta in portafoglio partecipazioni rilevanti in Azimut (5%), Atlantia (5,02%), Prysmian (intorno al 5%) e Ubi (4,94%). Oltre a quelle non segnalate a Consob perché sotto il 2 per cento.
Inizialmente gli analisti hanno spiegato l’interessamento come un effetto collaterale del deflusso dai mercati emergenti sui quali gli investitori si erano spostati per fare carry trade. Poi il mercato ha iniziato a vendere pesantemente. Circa 60 miliardi tra equity e bond sono defluiti dalle aree emergenti nel 2013 e altri 40 nel primo trimestre di quest’anno. Ma la tendenza sta cambiando. «La crescita dei mercati emergenti sebbene continui a superare quella dei Paesi occidentali è di circa tre punti percentuali inferiore rispetto al gap del periodo 2008-2009. Nonostante ciò restano in vantaggio», spiega Kaan Nazli Senior Economist di Neuberger Berman. «Più precisamente, i tassi di crescita in entrambe le aree stanno accelerando in parallelo tanto che si sta prefigurando un ambiente favorevole sia per gli investimenti istituzionale che corporate».
Neuberger Berman, già divisione investment management di Lehman Brothers, dopo il crac della casa madre ha iniziato un proprio percorso di crescita. Fino ad arrivare a gestire (dati al 31 dicembre 2013) 242 miliardi di asset. Da tre anni ha aperto una filiale a Milano e quest’anno punta a crescere con nuove assunzioni. Segno che vede nell’Italia prospettive di lungo termine. Soprattutto nel comparto retail. Idea sostenuta dalla stessa Blackrock. Non a caso il 26 marzo Larry Fink, il capo del colosso da 4 mila miliardi, ha preso carta e penna per spiegare a tutti i dipendenti che la vocazione del fondo è di lungo periodo. Condannando l’atteggiamento di breve termine dei fondi attivisti, che spingono le aziende di cui sono soci a indebitarsi pur di staccare laute cedole.
Anche Norges Bank che a Piazza Affari detiene poco meno di 5 miliardi di euro negli ultimi mesi ha rimodulato gli investimenti. Nel 2012 il ministro delle finanze norvegese ha recentemente dichiarato che, in virtù della natura d’investitore di lungo termine del fondo (che da solo detiene l’1% del mercato azionario globale), questo veicolo può temporaneamente trasformarsi – durante fasi difficili per il mondo del credito - in un fornitore di liquidità per il mercato. Un modo per puntare su società con un livello di capitalizzazione più basso e spingere per una sotto ponderazione dei titoli a elevata crescita. Una strategia che si sposa bene con le necessità italiane.
Russia, le ambizioni commerciali
Altro tenore, invece, se si considera la Russia. Rosneft, la compagnia statale forte nell’upstream quanto nel down stream ha il mese scorso acquisito indirettamente il 13% di Pirelli. Lo scorso anno aveva chiuso un accordo per distribuire in 1.700 stazioni di servizio gli pneumatici di Tronchetti Provera. Camfin, la holding di famiglia, è tra i leader nella distribuzione extra-rete dei prodotti petroliferi e dei servizi di facility management. Know che manca ai russi. Un modo per rafforzare la presa sulla Penisola dove i russi hanno già speso denaro in Saras. L’interesse è comunque reciproco. In Cina Pirelli per le gomme sintetiche potrà rifornirsi direttamente da Rosneft. Con una serie di benefici. Insomma il Cremlino vede negli investimenti non certo le opportunità finanziarie ma commerciali. Accrescendo le possibili future sinergie con l’interessamento cinese alle reti. Entrambe i Paesi non sembrano dunque particolarmente interessati a un tema strategico come la governance.
Fondi arabi, investitori di lungo periodo?
La posizione dei fondi arabi potrebbe invece integrarsi più facilmente con le logiche italiane sostenute per decenni dal capitalismo familiare. È però presto per dire se gli esponenti di Abu Dhabi o Dubai si integreranno nei salotti 2.0. Al contrario questo potrebbe essere un futuro campo di scontro con la mentalità americana e anglosassone. Giovanni Bazoli parlando con il Financial Times ha dichiarato che il capitalismo di relazione non è la causa dei mali italiani e ha lanciato un messaggio: servono nuovi soci affidabili e di peso. A chi si riferiva? Evidentemente a investitori amici che non hanno interesse a scombussolare le tradizioni. Nel 2013 all’assemblea di Eni per la prima volta la presenza di investitori istituzionali è stata superiore a quella dell’azionista di riferimento. Non successe nulla perché in tema di remunerazioni ci fu allineamento con il Tesoro. Ma se in futuro i fondi stranieri avessero il peso e la volontà per fare scelte di governance in contrapposizione con le Fondazioni o il Tesoro che succederà? (2.continua)
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