La secessione non è un’improvvisata
9 aprile 2014
Da circa tre settimane i termini «indipendenza», «autonomia» e «secessione», cavalli di battaglia della Lega dei primi anni ‘90, sono tornati a far parte del nostro linguaggio quotidiano: le pagine dei giornali descrivono con cura la cronaca degli eventi, gli esponenti di quella o questa parte politica le commentano, i salotti televisivi dedicano loro ampio spazio.
Sì, perché il gran parlare sull indipendenza veneta e sull’autonomia speciale per la Lombardia ha un duplice effetto. Da un lato, rafforza il sentimento di disagio di un territorio che per lungo tempo ha rappresentato il motore della locomotiva Italia e che, adesso, sta vivendo uno dei momenti più difficili della storia economica italiana e mondiale; dall’altro, affascina, stupisce e, azzarderei, intimorisce il lettore e lo spettatore che, a centinaia di chilometri di distanza, subisce quasi in silenzio le conseguenze di una crisi globale.
Peccato che tutto questo polverone sia, appunto, “solo un polverone” sollevato dal vento dell’insofferenza, alimentato da una buona dose di demagogia pre-elettorale, ma privo di qualsiasi fondamento costituzionale e palesemente anacronistico. La Repubblica delineata dalla Costituzione del ’48 è infatti, «una e indivisibile» e non prevede alcuna forma di distacco o secessione che dir si voglia.
La debolezza delle pretese di Veneto e Lombardia trova ulteriore fondamento nel fatto che la Costituzione riconosce alle regioni la possibilità di negoziare «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» con il governo centrale, relativamente a un determinato elenco di materie: ciò significa che ogni regione può, al momento, optare per un proprio rafforzamento in determinati settori utilizzando le “vie costituzionali”. Questa disposizione, se attuata, avrebbe probabilmente colmato la sete di autonomia di quelle stesse Regioni che oggi, rispettivamente, scrivono a Renzi pretendendo di venire equiparate al Trentino Alto Adige e individuano nello Statuto Speciale la soluzione dei propri problemi.
Ci si chiede come mai le due Regioni leghiste non abbiano colto la forza dirompente dello strumento messo a disposizione dalla Costituzione e soprattutto come si possa, adesso, tornare a parlare di Autonomia Speciale dopo aver più volte attaccato le Regioni a Statuto Speciale a causa degli eccessivi sprechi e privilegi. La confusione regna sovrana ma la Costituzione è chiara e senza una modifica della stessa e in particolare dell’art.116, che elenca le regioni che per motivi di carattere storico e culturale «dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia», non si va da nessuna parte.
I referendum consultivi di cui parlano Zaia e Maroni non rappresentano certo la via istituzionale per raggiungere l’autonomia desiderata: non si tratta di una questione prettamente locale, da risolvere utilizzando le regole che le regioni, nel rispetto della Costituzione, si sono date, quanto piuttosto di una tematica che, ponendosi in contrasto con la stessa legge fondamentale, non ha alcun futuro dal punto di vista giuridico.
Ora, l’unica strada perseguibile per i patrioti veneti e lombardi è dunque quella politica: il governo Renzi, lo stesso che nella propria riforma fa scomparire quanto previsto dal 116, dovrebbe accogliere le pretese di Veneto e Lombardia ponendo fine al patto su cui si fonda da sempre la nostra Repubblica. È una soluzione impensabile e anacronistica: il Veneto non è la Catalogna, la storia costituzionale italiana è altro da quella spagnola. E se poi si volesse insistere con questa comparazione, va registrato che l’Alta Corte Spagnola ha dichiarato incostituzionale la consultazione referendaria sull’indipendenza catalana che avrebbe dovuto svolgersi il 9 novembre 2014. Tanto per dire: l’esperienza insegna.
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