L'Europa che vogliamo
Pubblicato: Aggiornato: n
È un giorno oggi per dire grazie - alla Germania, all'Austria, e, soprattutto, a quei profughi siriani che con la loro lenta ma determinata marcia stanno frantumando tutte le frontiere. Prima di tutto quelle dentro di noi.
Dunque l'Europa non ha guardato dall'altra parte. Non si è rifugiata dietro porte sbarrate, cancelli di ferro, polizia. L'Europa non è solo paura, evidentemente, come pure ci è stato ripetutamente detto.
Sono giorni come questi, in cui si può guardare a volti che si sorridono al di qua e al di là di transenne, a mani che si stringono, ad applausi di benvenuto tra gente di cittadinanza, religione e abitudini diverse. Sono giorni come questi quelli in cui l'antica angoscia di essere europei si scioglie, e l'Inno alla Gioia, improbabile Inno di una collezione di paesi raccolti sotto la fredda sigla Ue, trova la sua ragione per essere ascoltato.
C'è molto da gioire oggi. L'ennesima deriva umanitaria - su cui poi per anni ci saremmo autocriticati - sembra essere diventata il passaggio verso una nuova Europa.
Ma c'è anche molto, molto da imparare e su cui riflettere. Non illudiamoci in queste ore - questo momento è un passaggio, dunque iniziale, precario e, potenzialmente, pieno di rischi. Meditare su lezioni e rischi è probabilmente il metodo migliore per fare sì che la positività di questo momento non venga fra pochi giorni o mesi cancellata da un brutto risveglio.
Le lezioni, dunque. La prima ha a che fare con la leadership. Angela Merkel è la principale autrice del cambiamento in corso. In una trasformazione che pure sembra senza rotture, la Cancelliera, che poche settimane fa appariva sprezzante delle condizioni economiche del popolo greco, ha aperto le porte della sua nazione ai profughi siriani, annunciando per altro una sospensione degli accordi di Dublino.Cambiando così il corso in atto degli eventi.
Se abbia agito o meno nell'animo del leader tedesco una ragione umanitaria non possiamo saperlo. Ma la spiegazione politica della sua svolta è chiara: Merkel ha sottolineato con la sua scelta il limite della gabbia in cui l'Europa che chiuso il suo rapporto con l'immigrazione, e con le sue responsabilità. Ci sono pochi dubbi che la Siria, come altri paesi nella nostra area di intervento, sono stati attraversati e malamente da molte nostre decisioni. L'assunzione di responsabilità è il primo principio che definisce qualunque leadership che voglia anche solo definirsi tale. Tanto più quando questo senso di responsabilità ha un prezzo molto alto: tutti sappiamo che in Europa l'immigrazione è il terreno su cui si vinceranno o perderanno le future elezioni, e che l'intero continente, a partire dalla Germania, è popolato da forze sempre più antiimmigrazione, da Ukip a Le Pen alla Lega ai movimenti neonazisti. Merkel è andata proprio nella casa dove brucia questo incendio e ha detto alla sua nazione in queste ore: "Abbiamo la forza per fare quel che va fatto". Usando esattamente le parole "quel che va fatto", riportando alla nostra attenzione uno dei fondamenti della nostra coscienza moderna, la kantiana idea che l'etica è un obbligo non è una opzione. Rispetto alla quale - potremmo proseguire - anche la sconfitta elettorale è secondaria.
Se ci sono altri leader politici europei che hanno avuto lo stesso coraggio al momento mi sfugge. Tuttavia, la lezione tedesca non è solo quella della accoglienza. Così come l'apertura delle frontiere ai profughi siriani non può essere vista solo come un buon gesto.
Nel momento stesso in cui finalmente ci si mobilita per "accogliere" e non solo per respingere, si rende anche visibile a tutti la dimensione del problema che abbiamo di fronte - solo i profughi della Siria sono 1 milione e 600 mila. I profughi o disperati del resto del mondo che guardano a noi, dalla Libia innanzitutto, e Africa, e Iraq, e Afganistan, sono tanti milioni. Accoglierli tutti non è e non potrà mai essere la soluzione.
È una consapevolezza che ha prima di tutti la stessa Merkel. La Cancelliera non ha promesso infatti la salvezza a tutti. L'attuale ingresso ai siriani costa - ha fatto sapere - la sospensione di ben 75 mila richieste di asilo dai Balcani. È un esercizio di realismo lodevole, perché prova che la accoglienza non è un gesto emotivo e tantomeno salvifico. L'accoglienza tedesca di queste ore è tanto gradita quanto limitata nel numero e nello scopo (i rifugiati di guerra).
Anche questa cautela è prova di leadership. La prudenza è oggi infatti un obbligo - gestire il futuro dell'immigrazione è una sfida così grande da rischiare di schiacciare il nostro continente. La soluzione non può venire solo dalla accoglienza in Europa o nell'intero Occidente.
La soluzione deve intanto nascere soprattutto dove il conflitto c'è. Questo è forse l'aspetto di cui si parla troppo poco. Molte voci dell'ambiente dei diritti umani in queste ore chiedono di nuovo a viva voce l'avvio di un intervento massiccio nella assistenza ai profughi dentro i paesi del conflitto e nelle nazioni limitrofe . Non si parla qui dei pochi fondi che si destinano già ai profughi, ma di un intervento adeguato alle dimensioni del momento. L'Onu e I paesi occidentali, ma anche Arabi e Asiatici, hanno le forze economiche per finanziare un progetto che ristabilisca condizioni davvero vivibili per la popolazione civile che già si trova nei paesi limitrofi, e che compensi economicamente le nazioni, come Giordania, Egitto, Libano, Turchia, Grecia, che già oggi hanno aperto le proprie porte a chi è in fuga. In attesa di una stabilizzazione politica dei paese in Guerra. Un po' come e' stato fatto ai suoi tempi, quasi venti anni fa ormai, per i Balcani.
Un programma di lungo periodo, dall'esito non facile, e dal percorso pericoloso. Per questo oggi più che mai ci vogliono grandi leader. E milioni di cittadini con grande senso del mondo in cui siamo, e un grande cuore per tutto quello che potremo fare .
Nessun commento:
Posta un commento