domenica 6 settembre 2015

Ma quei grandi sudisti amici di Renzi hanno ascoltato le interviste di Salvini?

Il cambio strategico della Lega Nord

Lega Nord, vecchi e nuovi obbiettivi. Il bersaglio si è spostato dagli immigrati del Sud agli stranieri. Resta il capitolo dell’indipendenza fiscale
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“Qui si disfa l’Italia o si muore”, recitava un celebre striscione leghista nei primi anni Novanta, quando l’ampolla del dio Po e le corna dei vichinghi cominciavano a fare da cornice ai bagni di folla di Pontida. Erano gli anni in cui Umberto Bossi spiegava la differenza antropologica tra pezzi di uno Stato che non potevano stare insieme (al nord “lavoro e sacrificio”, diceva, e al sud “furbizie e corruzione”) e in cui l’ideologo del movimento, Gianfranco Miglio, annunciava che non sarebbe mai andato “a insegnare a Catania o a Palermo: sarebbe fatica inutile”.
matteo salvini(Matteo Salvini)
Ma dietro il dito delle rivendicazioni culturali c’era, anche allora, la luna degli interessi economici: i manifesti del Nord gallina dalle uova d’oro che, con il suo gettito fiscale, sfama il resto d’Italia sono, ancora oggi, il nocciolo dell’elaborazione politica leghista. E la frase pronunciata ieri da Matteo Salvini (“Se arrivano altre tasse, scendiamo a Roma coi bastoni”) ne riassume piuttosto bene il senso.
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La Lega scherza ormai da quasi trent’anni con il fuoco dell’indipendentismo. Lo fa a fasi alterne, spesso legate alla necessità di compattare la base nei momenti più delicati, ma la pallottola è sempre in canna: dalla fase etnica (seconda metà degli anni Ottanta) in poi, la secessione – nel nome della “libertà di autodeterminazione dei popoli” – ha avuto un andamento carsico, attraversando fasi morbide (tipo il colpo di fulmine tra Calderoli e il Pd sul federalismo) per poi tornare in superficie, spesso in occasione dei congressi locali o comunque degli appuntamenti elettorali.
Da un po’ di anni, ormai, il discorso sulla diversità antropologica tra Nord e Sud regge sempre meno: un po’ perché è sempre più difficile trovare discendenze padane di sette generazioni, molto perché il bersaglio si è spostato dagli immigrati meridionali a quelli stranieri. È rimasto invece intatto, se non si è addirittura rafforzato, il capitolo economico – quello dell’indipendenza fiscale, per capirci – che ha fatto breccia anche a sinistra e che, in un momento di crisi economica, può allargare il consenso anche alla parte di elettorato più lontana dai toni propagandistici e spesso ammiccanti a un latente razzismo.
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Il Salvini mezzo ubriaco che canta il coro da stadio contro i napoletani ha posato la birra, almeno in pubblico, e si è messo la camicia buona. Il modello è oggi la Catalogna indipendentista, che a 300 anni dalla caduta di Barcellona nelle mani dell’esercito borbonico sta scendendo in piazza – anche in piazza San Pietro, con striscioni durante l’Angelus del Papa – per sfidare il governo spagnolo sul referendum (formalmente incostituzionale) del prossimo 9 novembre. E prima ancora della Catalogna c’è la Scozia, che giovedì prossimo deciderà il proprio destino e che il governo britannico sta tentando di non perdere promettendo una maggiore autonomia sulle materie fiscali, sulla spesa pubblica e sul sistema assistenziale. È proprio questo, in effetti, il vero pallino della Lega di oggi, più pragmatica – basti pensare che nella scorsa legislatura il gruppo. parlamentare si chiamava Lega Nord Padania, oggi “solo” Lega Nord e autonomie – e meno vichinga di venticinque anni fa.
Anche la mossa del referendum per l’indipendenza del Veneto, contro cui il governo ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale, è in realtà una pistola a salve sul tavolo del braccio di ferro con Roma: la priorità – come ha dichiarato lo stesso segretario leghista a Panorama – è “gestire l’emergenza”, ossia dare una risposta concreta alle “imprese che chiudono i battenti” e ai “suicidi legati alla crisi”. Poi la tentazione della propaganda ti spinge ad andare oltre, e ti fa lanciare improbabili appelli a Sicilia, Sardegna e Salento perché seguano il Nord nella battaglia indipendentista e riportino l’Italia indietro di due secoli. Ma è sempre lo stesso discorso, quello del dito e della luna: imprese che chiudono, tasse che strozzano, crescita ferma. Altro che secessione.
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