Le tre cose che il sindacato dovrebbe assolutamente fare
27 novembre 2014
Ci sono tre cose che il sindacato italiano dovrebbe assolutamente fare se vuole evitare di collassare come è accaduto all’URSS e ai grandi partiti politici italiani dopo l’89.
La prima è quella di chiedere l’abrogazione dell’art. 18, per porre cosi fine, una volta per tutte, ad un equivoco che danneggia innanzitutto i lavoratori. L’art. 18 non difende, come si sostiene con enfasi, i lavoratori dai licenziamenti discriminatori. Per fare questo sarebbe sufficiente, in un paese normale, il rinvio al Codice Civile, come avviene nei paesi anglosassoni. L’art. 18 difende, invece, una concezione “proprietaria” del lavoro (la c.d. Job property). Difende, cioè, l’idea che il lavoratore non sia semplicemente il titolare pro tempore di un posto di lavoro, ma che ne sia, in qualche modo, il proprietario. Che poi, a ben vedere, è esattamente quello che i pubblici dipendenti (cui, per altro, il legislatore dell’epoca si è ispirato) pensano del loro.
Questa concezione proprietaria del posto di lavoro danneggia innanzitutto il lavoratore perché separa la “professionalità” dalla “occupazione”. L’occupazione è considerata un “diritto” che qualcuno (lo stato?) deve comunque garantire, mentre la professionalità, che della occupazione è il presupposto, diventa, per usare un termine caro al sindacato italiano, una variabile indipendente. Una assurdità! Che affonda però le sue radici nella diffusa convinzione che il lavoro non sia una necessità, ma un diritto. Tutti e soprattutto i sindacalisti dovrebbero invece ricordare che il vero patrimonio di cui il lavoratore dispone, l’unico che davvero gli appartiene (Marx docet) è la sua professionalità, che rappresenta anche l’unica vera garanzia della sua occupazione. Se il sindacato non è capace di difendere e valorizzare la professionalità del singolo lavoratore non ne potrà difendere neppure l’occupazione.
La seconda scelta che il sindacato deve compiere è quella di dichiarare finita l’epoca della concertazione col governo e di affermare la priorità della contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale di categoria. Deve, come si sarebbe detto una volta, “ritornare in fabbrica”. Per il sindacato il ritorno in fabbrica deve significare due cose molto precise: ristabilire un nesso logico fra il salario e i contenuti concreti del lavoro e ridefinire il rapporto fra l’azione rivendicativa in azienda e il futuro della stessa (affrontare cioè il nodo, della co-gestione). La prima di queste due questioni è la più difficile da risolvere, anche perché pesa tutt’ora l’eredità negativa della teoria del “salario variabile indipendente”. Nessuno ricorda chi sia stato il primo ad enunciarla, se P. Carniti o B. Trentin, ma una cosa però è certa: da quel momento la strategia salariale del sindacato è cambiata, ed è cambiata in peggio. Anziché partire dai contenuti concreti del lavoro, che sono la fatica, la responsabilità, la professionalità e la produttività, e cercare di remunerarli tenendo conto delle inevitabili differenze fra i lavoratori, il sindacato ha preso a riferimento i “bisogni”, che sono per definizione uguali per tutti. Non più, insomma, le “capacità” del singolo, ma le “necessità” di tutti: una scelta in apparenza nobile, ma che alla prova dei fatti, si è rivelata rovinosa, innanzitutto per i lavoratori. Da quel momento si è determinato infatti un progressivo appiattimento dei salari, la loro tendenziale diminuzione, la caduta della produttività e una perdita di valore della professionalità, che ha alimentato, fra l’altro, il dilagare della pratica dei fuori busta. Un disastro! Cui ha fatto seguito il progressivo abbandono della contrattazione aziendale e l’impoverimento del sistema delle relazioni industriali. Del resto, se i contenuti concreti del lavoro non sono più centrali e se del futuro dell’azienda non ci si sente responsabili, è ovvio che alla contrattazione aziendale si preferisce quella nazionale con la Confindustria e col Governo.
La terza e ultima scelta che il sindacato deve fare è il ripudio del monopolio pubblico del collocamento. L’idea che il sindacato e la sinistra hanno difeso oltre il limite del ragionevole, e cioè che soltanto lo Stato debba essere abilitato ad intermediare la manodopera (perché se a farlo sono i privati torneremmo al caporalato), è una delle cause principali della paurosa arretratezza del nostro sistema di servizi al lavoro. Se oggi l’Italia non dispone, come gli altri paesi europei, di centri per l’impiego diffusi su tutto il territorio nazionale davvero in grado di gestire con competenza, professionalità ed efficacia il problema del collocamento dei lavoratori, e se ancora non disponiamo di un numero sufficiente di agenzie pubbliche e private altamente qualificate, questo lo si deve anche e soprattutto al fatto che fino al 1997 i privati sono stati tenuti rigorosamente fuori dal mercato. Questo fatto ci ha impedito, fra l’altro, di accumulare esperienze nel campo dell’’outplacement, di sperimentare davvero su larga scala la formazione finalizzata all’impiego e di utilizzare al meglio l’apprendistato. Noi, ancora oggi, non sappiamo come si fa ad aiutare davvero i giovani e i lavoratori a proporsi, a motivarsi e a ricercare attivamente un lavoro. Non ci siamo mai posti seriamente questo problema perché abbiamo sempre pensato che fosse lo Stato a doverci pensare. Si è creato cosi un grande vuoto che i lavoratori hanno cercato di colmare attaccandosi all’art. 18 e ad un sistema di ammortizzatori sociali in grado non tanto di rioccuparli, quanto piuttosto di accompagnarli alla pensione (vedi la vicenda Alitalia). Nessuno può biasimarli per questo. Quelli che sono da biasimare sono invece coloro i quali non hanno saputo e voluto creare anche in Italia un mercato del lavorio aperto, efficiente, flessibile e trasparente.
L’amara verità è che a dispetto della retorica sul lavoro, che in Italia abbonda (dalla Repubblica fondata sul lavoro al lavoro come diritto), il lavoratore italiano è il più solo fra i lavoratori europei, e lo è proprio nel momento in cui avrebbe maggiormente bisogno di aiuto, cioè quando cerca il suo primo lavoro o quando, avendolo perso, ne cerca uno nuovo. Ci vorranno anni per cambiare questo stato di cose. Non sarebbe ora di cominciare?
Gianfranco Borghini
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