Nella foto i manifestanti scesi in piazza a Reykjavik per protestare contro la decisione del governo di sospendere, senza passare attraverso un referendum, la richiesta di adesione all'Unione europea (AFP Photo)Nella foto i manifestanti scesi in piazza a Reykjavik per protestare contro la decisione del governo di sospendere, senza passare attraverso un referendum, la richiesta di adesione all'Unione europea (AFP Photo)
Sono imprevedibili e tortuose le strade dell'euroscetticismo crescente che attraversa l'Europa. E il cuore del dibattito sempre di più si colloca nel Nord del Vecchio Continente se non proprio a Nord della Manica.
L'ultimo spunto di cronaca arriva dalla piccola Islanda, dove migliaia di persone questa settimana sono scese in piazza per protestare contro la decisione del governo – euroscettico – di sospendere, senza passare attraverso un referendum, la richiesta di adesione all'Unione europea presentata nel 2010: una mobilitazione che a Reykjavik non si vedeva dalla grave crisi finanziaria del 2008-2009; in 30mila poi (circa il 10% della popolazione) hanno firmato una petizione per chiedere una consultazione popolare sul tema.
Un'improvvisa ventata di europeismo? Le cose non stanno esattamente così e un passo indietro può aiutare a capire.
L'Islanda è in rotta di collisione con l'Unione europea già da qualche tempo sulle quote pesca, tema strategico per l'economia nazionale. I colloqui di adesione erano già stati congelati l'anno scorso, prima che le elezioni politiche portassero al governo una coalizione euroscettica, formata dai centristi del Partito progressista e i conservatori del Partito dell'Independenza. I sondaggi hanno finora sempre evidenziato che la maggioranza della popolazione è contraria all'adesione. Tra le promesse elettorali dei partiti al potere c'era però quella di sottoporre la questione appunto a un referendum popolare, mentre questa settimana il governo ha deciso unilateralmente, sottolineando che «star fuori dalla Ue è il miglior modo per tutelare gli interessi islandesi».
È stata proprio la promessa tradita a far convergere nella protesta posizioni diverse: quella dei partiti di opposizione – inclusi i socialdemocratici che guidavano il precedente governo che firmò la richiesta di adesione – che giudicano vantaggioso un ingresso nell'Unione europea e vorrebbero un referendum da abbinare alle elezioni locali che si terranno a fine maggio, e quella di quanti alla Ue si oppongono, ma vorrebbero comunque avere il diritto di esprimersi. In nome di quell'ideale di autodeterminazione e democrazia diretta della cui mancanza spesso si incolpa proprio l'Europa.