domenica 4 settembre 2016

Il pasticcio grillino tra politica e giustizia. Quando l’avviso di garanzia non conta

M5S
Beppe Grillo durante il flash mob del M5S in piazza di Montecitorio, Roma, 7 maggio 2015.
ANSA/ALESSANDRO DI MEO
Un tempo Di Maio diceva che da indagati ci si dimette. A prescindere. Dov’è finito ora quel cinico giustizialismo?
 
All’inizio della loro esperienza amministrativa il Movimento Cinque Stelle chiedeva le dimissioni per chiunque fosse coinvolto – anche solo sfiorato – in un’ipotesi di reato. E lo faceva al grido di onestà tutte le volte che vedeva un politico iscritto nel registro degli indagati. Con una verve quasi godereccia.
Oggi, giocoforza, non è più così. Con molti degli amministratori grillini indagati (vedi i sindaci di Parma e Livorno solo per citare i primi due casi che ci vengono in mente) la linea del movimento guidato da Beppe Grillo è cambiata, è diventata attendista, praticamente garantista.
Dov’è finito quel cinico giustizialismo che caratterizzava le fasi iniziali del M5S?
Il mutamento tutto grillino del rapporto tra politica e giustizia oggi viene inevitabilmente rafforzato dalla vicenda che ha colpito l’assessore all’ambiente della giunta capitolina, Paola Muraro, indagata dalla Procura di Roma per abuso di ufficio e violazioni ambientali.
Una nuova grana – l’ennesima in questi giorni – che di fatto mette nuovamente in discussione la credibilità della giunta Capitolina.
Tuttavia per Grillo e la Casaleggio Associati “non si tratta di un rinvio a giudizio” quindi, almeno per il momento, per i vertici del Movimento deve restare seduta sulla sua poltrona.
Sarà, ma il leader pentastellato Luigi Di Maio, a dicembre 2015, non la pensava esattamente così: “Di fronte a un avviso di garanzia bisogna dimettersi – tuonava il giovane vicepresidente della Camera – sono contrario alla presunzione d’innocenza per un politico“.
Ma ce n’è un’altra, ancora più diretta. A fine luglio di quest’anno, l’assessore all’Urbanistica della Raggi, Paolo Berdini, aveva detto pubblicamente: “Se dovessero indagare la Muraro, allora cambierebbe tutto, le sue dimissioni sarebbero un atto dovuto“.
Parole impossibili da equivocare.
Se poi andiamo a consultare il codice etico – quel famoso patto firmato dall’intera giunta – si legge che “ciascun consigliere assume l’impegno di dimettersi laddove venga iscritto nel registro degli indagati“.
Una decisione su cui poi deve esprimersi “la maggioranza degli iscritti al M5S – si legge sempre nel testo del codice – mediante consultazione in rete”.
Peccato però che la consultazione democratica su internet debba essere decisa e deliberata – recita ancora quel patto – dai Garanti del Movimento, ovvero Beppe Grillo e Davide Casaleggio.
Temiamo allora che la consultazione in rete non ci sarà.
Alla fine, infatti, la linea che ha prevalso nell’entourage pentastellato è quella di leggere intanto le carte e i capi d’accusa sulla Muraro e, soltanto più avanti, prendere una decisione.
Ma delle due l’una. O si tratta di un cambio di passo ideologico (per carità, legittimo e anche corretto) o più banalmente questo nuovo approccio con la giustizia rappresenta un’opportunità politica, la difesa di quei “cittadini” intrappolati dai “poteri forti” per dirla con le parole della sindaca romana.
Entrambe le ipotesi, in ogni caso, mettono in risalto un punto: il venir meno della tanto sbandierata coerenza a Cinque Stelle.

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